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Call of Duty: Black Ops 7 si prepara a un lancio monumentale

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La community di Call of Duty si prepari a un’immersione totale in una nuova era di combattimento. Call of Duty: Black Ops 7 sarà lanciato a livello mondiale il 14 novembre 2025. Il titolo sarà disponibile per PlayStation 4, PlayStation 5, Windows, Xbox One e Xbox Series X/S, e sarà incluso fin dal giorno del lancio per gli abbonati a piani selezionati di Xbox Game Pass.

Sviluppato da Treyarch, Black Ops 7 è destinato a ridefinire l’esperienza di gioco con un’enorme quantità di contenuti disponibili fin dal primo giorno, pensati sia per i veterani che per le nuove reclute.

Un’esperienza Multigiocatore senza precedenti:

Il multigiocatore di Black Ops 7 si lancia con un’offerta robusta e variegata, progettata per soddisfare ogni stile di gioco:

  • 16 Mappe 6v6 al Lancio: I giocatori potranno esplorare 16 nuove e distintive mappe 6v6, ognuna creata con il gameplay adrenalinico e strategico che caratterizza la firma di Treyarch.
  • Battaglie su larga scala: Oltre alle arene 6v6, saranno disponibili due mappe Schermaglia (Skirmish) di dimensioni maggiori, per combattimenti su scala più ampia.
  • Un mix di modalità iconiche e inedite: Sarà disponibile una lista completa di modalità, tra cui le nuove Overload e Kill Order, affiancate a classici amatissimi come Team Deathmatch, Dominio, Cerca e Distruggi, Postazione e Uccisione Confermata. Saranno presenti anche le modalità Face Off e Gunfight.
  • Il Ritorno di un’icona: La leggendaria mappa Nuketown 2025 farà il suo trionfale ritorno durante la preseason, a partire dal 20 Novembre, pronta a ospitare ancora una volta battaglie frenetiche.

Zombi, un terrificante viaggio nell’Etere Oscuro:

La celebre modalità cooperativa Zombi a round ritorna con una nuova, terrificante avventura che spingerà i giocatori ai loro limiti:

  • “Ashes of the Damned”: Preparatevi a esplorare la mappa Zombi più grande mai creata da Treyarch. Ispirata all’esperienza di Tranzit, “Ashes of the Damned” trasporterà i giocatori nel cuore dell’Etere Oscuro. I giocatori potranno scegliere se affrontare l’orrore nei panni della Terminus Crew o di una versione contorta della storica Primis Crew.
  • La Caccia all’Easter Egg: La missione principale dell’Easter Egg di “Ashes of the Damned” sarà attivata per tutti i giocatori a partire dalle 18:00 (ora italiana) del 14 Novembre.
  • Arsenale e Potenziamenti: I giocatori avranno a disposizione 30 armi principali e da mischia e ben 12 Perk-a-Cola, tra cui 11 classici rivisitati e una bevanda completamente nuova. L’arsenale tattico si espande con nuovi strumenti come la Granata a Rilevamento (Sight Grenade), l’Hunterbot, la Granata a Grappolo (Cluster Grenade) e la Torretta Mobile (Point Turret).
  • Dead Ops Arcade 4: Per gli amanti dell’azione arcade, torna anche la frenetica modalità a scorrimento verticale Dead Ops Arcade 4.

Ottimizzazione per PC: Il team di sviluppo ha confermato un supporto completo per la piattaforma PC, con opzioni grafiche estese, ottimizzazione per schermi di varie dimensioni, supporto per tecnologie di upscaling come FSR 4 e un polling del mouse a sotto-frame per la massima reattività. Il gioco è inoltre ottimizzato per i PC handheld supportati.

Disponibilità e Pre-load: Sarà possibile effettuare il pre-load di Call of Duty: Black Ops 7 su tutte le piattaforme a partire dalle 18:00 di lunedì 10 Novembre, per essere pronti a scendere in campo non appena il gioco sarà live.

Football Manager 26 sarà disponibile dal 4 novembre

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Football Manager 26 sarà disponibile su tutte le piattaforme a partire da martedì 4 novembre e consentirà agli appassionati di calcio di scrivere la loro storia ponendoli al centro del gioco più bello del mondo.

Sviluppato utilizzando per la prima volta il motore grafico Unity, FM26 rinnova completamente l’esperienza manageriale e stabilisce un nuovo standard per l’iconica serie firmata Sports Interactive™ e SEGA©.

Ogni partita adesso risulta ancora più intensa e spettacolare grazie alle nuove animazioni volumetriche, basate su movimenti reali, e a una veste grafica del campo aggiornata. FM26 offre un livello di realismo superiore, con la Premier League disponibile ora su licenza, che contribuisce a creare lo scenario ideale per questa nuova era della serie.

L’introduzione del calcio femminile apre le porte a un mondo di nuove possibilità. Integrato alla perfezione all’interno dell’ecosistema di Football Manager, si forma così un unico universo calcistico. Questo debutto è accompagnato dal database più completo mai realizzato e da una vasta gamma di competizioni su licenza, che saranno svelate nelle prossime settimane.

L’interfaccia rinnovata garantisce maggiore controllo e influenza nelle decisioni chiave di ogni carriera. Progettata per risultare più intuitiva sia per gli appassionati della serie che per i neofiti di Football Manager, l’interfaccia di FM26 raccoglie ulteriori miglioramenti nelle sezioni dedicate alla tattica, all’osservazione e al mercato.

Al lancio sarà disponibile anche Football Manager 26 Console, che porterà la nuova era dei gestionali calcistici agli utenti di Xbox e PlayStation 5. FM26 Console (Xbox) e FM26(PC/Mac) saranno entrambi disponibili su Xbox Game Pass.

Anche Football Manager 26 Touch fa il suo ritorno su Nintendo Switch™ per l’ottava stagione, disponibile in versione digitale da giovedì 4 dicembre.

Nonostante il passaggio a un nuovo motore, la tecnologia per convertire le partite nel nuovo formato farà sì che FM26, FM26 Console e FM26 Touch includeranno al lancio la compatibilità con i salvataggi di Football Manager 2024 e Football Manager 2023.

Il 4 novembre uscirà anche Football Manager 26 Mobile, in esclusiva su Netflix. FM26 Mobile, che unisce un feeling classico con le nuove funzionalità di cui sopra, sarà l’unica versione, per ora, a non avvalersi del passaggio al motore Unity. Inoltre, FM26 Mobile sarà il primo capitolo della serie mobile a supportare la funzione di compatibilità dei salvataggi*.

Sono felice e onorato di poter finalmente svelare la data d’uscita di Football Manager 26“, queste le parole rilasciate da Miles Jacobson, direttore studio di Sports Interactive. “Preparare il futuro di Sports Interactive per i prossimi 20 anni e oltre è stato uno sforzo incredibile, che ha richiesto un’enorme mole di lavoro da parte di tutto il team negli ultimi due anni. FM26 rappresenta una pietra miliare nella nostra ricerca del manageriale calcistico perfetto. Tutto lo studio non vede l’ora di condividere questa esperienza con il resto del mondo“.

Maggiori informazioni sull’uscita di FM26 sulle altre piattaforme saranno svelate nelle prossime settimane.

Fino al 4 novembre sarà possibile preacquistare FM26 presso i rivenditori digitali autorizzati da SEGA** ottenendo uno sconto del 10%.

Coloro che preacquisteranno FM26 per PC e Mac avranno la possibilità di iniziare la propria carriera manageriale in anticipo grazie all’accesso avanzato. L’accesso avanzato sarà disponibile su Steam ed Epic circa due settimane*** prima del lancio ufficiale. Sarà possibile proseguire le carriere per giocatore singolo iniziate in quel periodo tramite l’aggiornamento che precede l’uscita del 4 novembre.

Battlefield 6, la recensione su Xbox Series X

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Dopo anni di delusioni e promesse mancate, DICE torna finalmente a farci sentire cosa significa giocare a un vero Battlefield. E sapete cosa? Funziona. Funziona davvero bene. Battlefield 6 arriva sul mercato con una missione chiara: voltare pagina rispetto a Battlefield 2042 e riportare i giocatori a quando la serie era il re indiscusso degli shooter su larga scala. Il risultato? Un multiplayer che spacca, una distruttibilità ambientale che mette i brivid, un comparto tecnico che gira liscio come l’olio. E poi c’è la campagna single player che sembra assemblata da qualcuno che aveva tutt’altro per la testa.

Il team di sviluppo stavolta non è solo DICE ma un vero collettivo di studi chiamato Battlefield Studios. Dentro ci sono anche Criterion Games, Ripple Effect e Motive Studio. Ognuno si è preso un pezzo del lavoro e il risultato si vede soprattutto nel multiplayer. Nove mappe al lancio che funzionano davvero, un sistema di classi tornato alle origini, modalità vecchie e nuove che sanno come tenerci incollati allo schermo e quella sensazione di caos controllato che mancava da troppo tempo.

Ma non è tutto rose e fiori. La campagna è un pasticcio narrativo che sembra confezionata frettolosamente, l’intelligenza artificiale dei nemici non è il massimo e alcune scelte di design potrebbero far storcere il naso ai veterani della serie. Però, se amate gli shooter multiplayer e volete sentirvi nel mezzo di una guerra vera, questo è il vostro gioco.

Preparatevi a vedere edifici crollare sotto i vostri piedi, sentire il fischio dei proiettili che vi sfiorano la testa, urlare al vostro compagno di squadra di rianimarvi mentre un carro armato nemico sta per passarvi sopra. Benvenuti nella guerra totale firmata Battlefield 6.

battlefield 6 recensione

La Campagna: Tanto Fumo e Poco Arrosto

Partiamo subito col botto: la campagna di Battlefield 6 è deludente. La storia ci porta nel 2027 in un mondo dove la NATO sta perdendo colpi. Il presidente viene assassinato e molti paesi europei decidono di mollare la coalizione. A quel punto salta fuori questa compagnia militare privata chiamata PAX Armata che inizia a raccogliere fondi e tecnologie da chi è uscito dalla NATO. All’inizio tutto sembra pacifico ma poi a qualcuno viene in mente di far partire una bella guerra globale. E noi ci ritroviamo nel mezzo come membri dei Dagger, una squadra d’élite che deve fermare questi mercenari.

Sulla carta sembra interessante ma nella pratica si rivela una noia mortale. Il villain principale risulta non pervenuto, i personaggi della nostra squadra sono esageratamente stereotipato: il duro di turno, il genio degli esplosivi, il cecchino misterioso e il medico che fa battute. Zero profondità. Zero evoluzione.

Le missioni sono nove in totale e si possono completare in circa 5 o 6 ore (dipende da quanto vi piace cercare i collezionabili). Ogni missione vi fa impersonare un membro diverso della squadra Dagger, quindi passerete dall’assalto al geniere alla ricognizione. È un bel modo per far capire al giocatore come funzionano le classi in multiplayer ma narrativamente non aggiunge niente.

Il gameplay della campagna ha i suoi momenti. Potete dare ordini semplici alla vostra squadra tipo far marcare i nemici dal cecchino o far esplodere una torretta dal geniere. La distruttibilità c’è e quando funziona è spettacolare. Potete far crollare edifici dove si nascondono i cecchini nemici o aprirvi un varco nelle pareti per sorprendere gli avversari. Peccato che il level design sia quasi sempre lineare. Provate a uscire dal percorso prestabilito e vi compare la scritta “torna indietro” con tanto di countdown. In alcuni casi ci sono persino dei muri invisibili che ci bloccano.

L’intelligenza artificiale, purtroppo, inciampa in troppe occasioni. I nemici corrono verso di noi diventando dei bersagli facili da colpire oppure restano fermi dietro coperture in attesa della kill. I nostri compagni di squadra sono utili solo quando gli date ordini specifici, per il resto potrebbero tranquillamente non esserci. Gli spawn point nemici talvolta finiscono col essere esilaranti. Capita, infati, spesso di vedere soldati materializzarsi dal nulla davanti ai nostri occhi.

C’è da dire che il gioco cerca di variare con missioni a bordo di carri armati o in scenari più ampi. Le missioni 8 e 9 sono le uniche che meritano davvero. La numero 8 vi mette in una grande vallata montana dove potete muovervi liberamente con i quad e decidere in che ordine distruggere tre siti antiaerei. Potete andare furtivi o sparare a tutto quelle che si muove e non. È quello che tutta la campagna avrebbe dovuto essere. La missione 9 invece è caos puro con veicoli, elicotteri e fanteria che si scontrano in uno scenario hollywoodiano di guerra totale. Se quelli di Battlefield Studios fossero riusciti a mescolare la libertà della missione 8 con la spettacolarità della 9 saremmo qui a celebrare una campagna memorabile.

Il consiglio? Giocatela a difficoltà Veterano per sentire almeno un minimo di sfida. Completate qualche sfida per sbloccare le ricompense. E poi lasciatevela alla spalle e buttatevi nel caos del multigiocatore, dove il gioco mostra il meglio di se.

PRO:

  • le missioni 8 e 9 mostrano il potenziale di cosa avrebbe potuto essere la Campagna di Battlefield;
  • la distruttibilità quando funziona è spettacolare;
  • sistema di ordini alla squadra semplice ma funzionale;
  • utile per fare rodaggio con le classi prima del multigiocatore;
  • sfide che sbloccano contenuti per l’online.

CONTRO:

  • storia sterile e personaggi senza personalità;
  • villain senza la carisma tipica del cattivo di turno;
  • intelligenza artificiale assolutamente fuori standard;
  • level design lineare con muri invisibili un po’ ovunque;
  • durata di sole 5-6 ore.

battlefield 6 recensione

Il gameplay: dove Battlefield mostra i muscoli

Adesso parliamo di quello che conta davvero. Il multigiocatore di Battlefield 6 è quello che i fan chiedevano da anni. È un ritorno alla formula che ha reso leggendaria la serie, con qualche tocco di modernità. E funziona alla grande.

Il feeling con le armi è fantastico. Ogni fucile ha un peso specifico, ogni mitragliatrice ha un rinculo che dovete imparare a controllare. I fucili da cecchino richiedono pazienza e precisione e quando mettete a segno un colpo a lunga distanza sentite quella soddisfazione che vi fa dipingere un ghigno di soddisfazione. Il gunplay è reattivo e preciso, sparare in questo gioco restituisce delle sensazioni positive.

Il time to kill è stato abbassato rispetto ai vecchi Battlefield. Significa che i nemici muoiono più velocemente e gli scontri sono più immediati. Alcuni veterani della serie potrebbero storcere il naso perché il gioco si avvicina al feeling di Call of Duty, ma la verità è che funziona. Gli scontri sono frenetici ma non caotici e soprattutto la scala rimane quella tipica di Battlefield, con 64 giocatori totali divisi in due squadre da 32.

Il movimento del soldato è stato migliorato tantissimo. Possiamo scivolare, correre da abbassati e arrampicarci con più fluidità. Non è pesante come i vecchi capitoli ma non è nemmeno un’arena shooter dove tutti saltano come canguri. È il giusto equilibrio tra realismo e divertimento.

Torniamo al sistema delle classi e qui quelli di BF Studios ha messo a segno il loro miglior colpo. Si torna alle quattro classi storiche: Assalto, Geniere, Supporto e Ricognitore. Ognuna ha gadget specifici che forniscono il cd. Vantaggio Competitivo. L’Assalto è perfetto per sfondare le linee nemiche con fucili d’assalto e scale d’assedio per raggiungere i piani alti degli edifici, il Geniere ha lanciarazzi per distruggere i veicoli e un saldatore per ripararli, il Supporto è il medico e il rifornimento della squadra con mitragliatrici pesanti e muri mobili per creare coperture e il Ricognitore marca i nemici con droni e binocoli ed elimina bersagli a distanza.

La novità più discussa è che ora ogni classe può usare qualsiasi tipo d’arma. Nei vecchi Battlefield dovevamo scegliere la classe in base all’arma che si voleva usare. Adesso possiamo essere un ricognitore con un fucile d’assalto se vogliamo. Questo ha fatto discutere la community ma in realtà ci è sembrata una scelta intelligente. Ora possiamo costruire il nostro  soldato come vogliamo senza rinunciare ai gadget della classe di riferimento.

battlefield 6 recensione

Ogni classe ha un percorso di addestramento base, con abilità passive tipo velocità di recupero salute o velocità di riparazione veicoli. Salendo di livello sblocchiamo l’addestramento avanzato che migliora queste skill e ne aggiunge di nuove. Il sistema di progressione funziona bene e ci dà sempre qualcosa da sbloccare.

La vera star del gameplay però è la distruttibilità tattica. Mai come prima la serie ha spinto così tanto su questo aspetto. Gli edifici non crollano più solo in eventi scriptati. Qui possiamo far crollare facciate intere di palazzi per seppellire un carro armato nemico, demolire ponti per tagliare vie di fuga, radere al suolo le coperture di un punto di controllo per esporre i difensori. Il terreno si deforma con crateri da esplosione, i muri vengono sfondati e i pavimenti crollano su se stessi. L’aspetto pià interessante è che la distruzione è imprevedibile. Stiamo collezionando kill con il cecchino in cima a una gru? State pur certi che qualcuno farà crollare la gru per trascinarci giù. Siamo al riparo in un edificio? Qualcuno può far crollare la facciata e seppellirci sotto le macerie. Avete visto un elicottero alleato schiantarsi contro un palazzo portando giù l’intera struttura? Ecco questa è l’esperienza Battlefield. È spettacolare da vedere ma soprattutto cambia completamente il modo in cui giocate.

Il gioco di squadra è fondamentale e viene premiato. Potete trascinare un compagno ferito dietro una copertura prima di rianimarlo. È una piccola aggiunta ma cambia tutto nelle situazioni sotto pressione. Possiamo piazzare scale da corda per creare accessi verticali, usare barriere mobili per fortificare posizioni e marcare nemici con droni per tutta la squadra (e nel mentre collezioniamo punti esperienza per tutto questo).

I veicoli sono tornati protagonisti ma con un equilibrio diverso. Carri armati e jeep dominano nelle mappe aperte ma sono vulnerabili nelle zone urbane dove la fanteria può colpirli dai tetti. Gli elicotteri e i jet sono devastanti nelle mani di piloti esperti ma la contraerea li tiene a bada. È un equilibrio che ancora necessita di qualche aggiustamento ma funziona.

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Il comparto tecnico merita un paragrafo a parte perché è semplicemente eccezionale.  L’ottimizzazione è un miracolo considerando la quantità di elementi a schermo. Certo, le texture di alcuni ambienti sono un gradino sotto la bellezza di Battlefield 2042, ma è un compromesso che si accetta volentieri per avere fluidità perfetta e distruzione su vasta scala.

E poi c’è il sound design che è semplicemente il migliore del genere. Ogni arma ha un suono unico che la rende riconoscibile. Le esplosioni hanno un peso e una profondità da brividi (sempre che giochiate cuffia-muniti). Il sistema audio posizionale è perfetto e vi permette di capire esattamente da dove arrivano i colpi. Se giocate con cuffie di qualità l’esperienza cambia radicalmente: possiamo sentire il sibilo dei proiettili che ci sfiorano, il rombo delle esplosioni che si propaga diversamente all’aperto o negli edifici, le comunicazioni radio che si sovrappongono alle urla. È una sinfonia di guerra che vi immerge totalmente.

PRO:

  • gunplay reattivo e soddisfacente con armi che hanno personalità;
  • sistema delle classi tornato alle origini e funzionale;
  • armi libere per tutte le classi che aumentano la personalizzazione;
  • distruttibilità tattica mai vista prima nella serie;
  • movimento del soldato fluido e bilanciato;
  • sound design che stabilisce un nuovo standard di qualità;
  • time to kill bilanciato tra velocità e tattica;

CONTRO:

  • time to kill più basso potrebbe non piacere ai puristi;
  • veicoli ancora da bilanciare nelle mappe urbane;
  • alcune texture ambientali meno definite di BF2042;
  • mancano scenari navali e battaglia in mare.

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Modalità e mappe: il cuore pulsante del gioco

Battlefield 6 offre un arsenale di modalità che spaziano dai grandi classici alle novità assolute. E ogni modalità ha senso di esistere, non ci sono riempitivi o esperimenti buttati lì tanto per fare numero.

Le modalità Guerra Totale sono quelle che tutti conosciamo e amiamo. Conquista è il pilastro della serie e qui funziona alla perfezione. Due squadre da 32 giocatori si contendono punti di controllo sparsi per la mappa, chi mantiene il controllo della maggioranza dei punti prosciuga i ticket nemici fino alla vittoria. È battaglia pura su larga scala con veicoli, fanteria e caos controllato. Sfondamento invece ha una squadra che attacca e una che difende settori progressivi. Gli attaccanti devono conquistare tutti i settori prima che finiscano i rinforzi mentre i difensori devono resistere. È più strutturata e tattica rispetto a Conquista.

La vera novità è Escalation ed è geniale. Funziona come Conquista ma con una svolta. Quando una squadra mantiene la maggioranza delle bandiere parte un timer, se quest’ultimo si esaurisce quella squadra guadagna un punto cruciale. Dopo ogni punto vinto l’area di gioco si restringe e i punti di controllo diminuiscono. La battaglia diventa progressivamente più intensa e claustrofobica, in un crescendo di tensione che elimina i tempi morti e tiene tutti costantemente impegnati.

Poi ci sono le modalità Logoramento pensate per mappe più piccole e scontri più concentrati. Team Deathmatch e Squad Deathmatch sono classici intramontabili. La prima è tutti contro tutti divisi in due squadre. La seconda è 4 contro 4 in spazi ristretti. Dominio ci fa conquistare e mantenere zone specifiche guadagnando punti nel tempo. Re della Collina invece ha una singola zona contesa che si sposta durante la partita.

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La cosa bella è che Battlefield 6 funziona benissimo anche in queste modalità più piccole. Il gunplay preciso e il movimento fluido rendono divertenti anche gli scontri ravvicinati. Non è solo questione di veicoli e mappe enormi, anche le battaglie di fanteria pura hanno il loro perché.

Le nove mappe disponibili al lancio sono il vero punto di forza. Battlefield Studios ha fatto una scelta precisa: mappe di medie dimensioni molto dense invece di lande desolate giganti come in Battlefield 2042. Il risultato è che l’azione è costante. Non si passano mai minuti a camminare nel vuoto, c’è sempre qualcosa che succede.

L’aspetto geniale è insito nel design modulare. Le stesse mappe funzionano sia per le modalità Guerra Totale che per il Logoramento. Semplicemente usano porzioni diverse dello stesso scenario. Offensiva Iberica, per esempio, è ambientata in una cittadina sullo Stretto di Gibilterra. In Conquista giocate sull’intera città, con strade ampie per i carri e vicoli per la fanteria. In Dominio invece ci si muove solo in un quartiere specifico, con combattimenti più concentrati tra i cortili e le palazzine.

Assedio del Cairo vi porta tra le strade della capitale egiziana in uno scenario urbano intenso. Fanteria e mezzi corazzati si contendono i quartieri principali, tra barricate e strade devastate. È caotica nel senso migliore del termine. Picco della Liberazione invece è una mappa montana enorme, con elicotteri e jet che dominano i cieli. Le due squadre partono da estremità opposte e si contendono il picco centrale. È vasta e permette tante strategie diverse.

Empire State vi riporta a New York ma è dedicata solo alla fanteria. Combattimenti ravvicinati tra vicoli, negozi accessibili, un museo e un parco lungo il fiume. Zero veicoli e focus totale sugli scontri a fuoco. Ponte di Manhattan invece è sempre a New York ma su scala maggiore con carri blindati, jeep ed elicotteri. Possiamo combattere sia per le strade che sui tetti dei grattacieli.

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Saints Quarter è una città europea colorata piena di piazze e fontane dove si combatte esclusivamente a piedi. È pittoresca e brutale allo stesso tempo. New Sobek City è un complesso di palazzi in costruzione nel deserto. Arena perfetta per veicoli corazzati e cecchini appostati sui piani alti.

Le due mappe più grandi sono Valle di Mirak e Operazione Firestorm. La prima è una vallata tra montagne con villaggi distrutti, trincee e campi coltivati, la seconda, invece, è un classico della serie rinnovato con la gigantesca struttura di estrazione e la ciminiera infuocata al centro circondata da sabbia e impianti industriali. Entrambe hanno piste di decollo per jet ed eliporti quindi gli scontri aerei diventano fondamentali.

C’è da notare che mancano scenari marittimi o navali. Niente battaglia in mare o su portaerei ed è un’assenza che si sente per chi amava quelle dinamiche. Ma le nove mappe presenti sono così ben fatte che la loro mancanza si dimentica con facilità (almeno in questa finestra post lancio).

Il design delle mappe favorisce la densità degli scontri ma c’è una predominanza di ambientazioni urbane. Questo fa brillare la distruttibilità del motore Frostbite ma limita un po’ la varietà strategica. I veicoli corazzati sono vulnerabili tra i palazzi perché la fanteria può colpirli facilmente dai tetti con lanciarazzi. Alcuni giocatori potrebbero sentire la mancanza di mappe più aperte dove i carri dominano. Ma nel complesso l’offerta è solida. Nove mappe che funzionano in modalità diverse, design modulare intelligente, varietà di ambientazioni anche se con focus urbano e soprattutto azione costante senza tempi morti. È quello che un multiplayer moderno dovrebbe offrire.

PRO:

  • nove mappe solide e ben progettate al lancio;
  • design modulare che adatta le mappe alle diverse modalità;
  • varietà di ambientazioni da New York all’Egitto alle montagne;
  • azione costante senza lunghe camminate nel vuoto;
  • mappe medie dense invece di lande desolate infinite.

CONTRO:

  • predominanza di ambientazioni urbane che limita la varietà strategica;
  • mancano completamente scenari navali o di battaglia in mare;
  • veicoli vulnerabili nelle mappe urbane (e ancora da bilanciare);
  • solo nove mappe al lancio potrebbero sembrare poco per alcuni.

Ghost of Yotei, la recensione su PS5

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Quando Sucker Punch ha annunciato Ghost of Yotei sembrava quasi troppo bello per essere vero. Dopo il clamoroso successo di Ghost of Tsushima nel 2020 molti si aspettavano un sequel diretto con Jin Sakai. Invece ci ritroviamo catapultati trecento anni nel futuro e sull’isola di Ezo (l’odierna Hokkaido) nel 1603 con una protagonista completamente nuova: Atsu. Una mercenaria con un passato devastante e un obiettivo cristallino come la neve che ricopre queste terre: vendicarsi dei sei samurai che hanno massacrato la sua famiglia sedici anni prima.

Questo nuovo capitolo dei Ghost si presenta come un’esperienza standalone che non richiede alcuna conoscenza del predecessore. Potete tranquillamente tuffarvi nelle lande ghiacciate di Ezo senza aver mai impugnato la katana di Jin. Ma per chi ha vissuto l’avventura su Tsushima il ritorno ha il sapore del “tornare a casa” con quella palette cromatica inconfondibile e quella regia cinematografica che strizza l’occhio ai classici di Kurosawa.

Parliamoci chiaro fin da subito: Ghost of Yotei è esattamente quello che si aspettavano tutti. Un bel “more of the same” con tutta la sicurezza e i limiti che questa definizione porta con sé. I punti di forza sono facilmente riassumibili: un comparto artistico da urlo che riesce a emozionare con panorami da cartolina giapponese. Un sistema di combattimento raffinato rispetto al primo capitolo con più varietà nelle armi. Una storia di vendetta “classica” ma efficace, che ti tiene incollato allo schermo. Un open world ricco di attività da svolgere, con una progressione leggera e mai opprimente.

I difetti però esistono e vanno messi sul piatto: alcune missioni secondarie risultano ripetitive e banali. I minigiochi abbondano (forse troppo) e alla lunga stancano, quella libertà promessa – nel scegliere l’ordine degli obiettivi – è molto meno rivoluzionaria di quanto SONY abbia voluto far credere, tecnicamente i volti dei personaggi non brillano come il resto della produzione, la telecamera durante gli scontri può dare ancora qualche grattacapo. Ma andiamo per ordine e scopriamo insieme se questo viaggio nelle terre ghiacciate di Ezo vale il prezzo del biglietto.

Ghost of Yotei recensione

Storia e personaggi: una vendetta lunga sedici anni

La storia di Ghost of Yotei segue uno schema narrativo classicissimo della tradizione giapponese: la vendetta personale portata avanti contro ogni probabilità da un individuo apparentemente normale che diventa leggenda. Atsu non è nè un’eroina e tantomeno una martire: è una mercenaria stanca e logorata dal dolore. Sedici anni prima, cinque samurai del clan Saito, insieme al loro Lord, hanno fatto irruzione nella sua casa. La piccola Atsu ha visto uccidere la sua famiglia con violenza inaudita davanti ai proprio occhio. Non contenti, hanno dato fuoco all’abitazione e l’hanno trafitta con la fredda lama di una katana, lasciandola moribonda sotto l’albero di ginkgo nel giardino.

Ma Atsu è sopravvissuta. È fuggita. Si è addestrata per anni nel continente accumulando rabbia e abilità fino a quando non è stata pronta a tornare. Il suo obiettivo è semplice quanto devastante: eliminare i sei di Yotei uno dopo l’altro. Ognuno di questi bersagli non è solo un nome da cancellare dalla lista ma rappresenta una sfumatura diversa del male umano: il traditore, il vigliacco, l’assetato di potere e il sadico che gode della sofferenza altrui.

Atsu nel corso della sua caccia diventerà l’Onryo: uno spettro impossibile da fermare che semina terrore nelle terre di Ezo. La scrittura colpisce per onestà e crudezza. Niente frasi a effetto o patina da film occidentale che cerca di sembrare giapponese, solo il peso crudo di una scelta che la protagonista deve portare sulle spalle. Il gioco è abile nel farci sentire questo peso. Ogni omicidio compiuto apre una ferita e ne richiude un’altra e ci si chiede spesso se quello che stiamo facendo sia giustizia o solo un’ossessione autodistruttiva.

La struttura narrativa è scandita dalla caccia ai sei bersagli e ogni scontro è un climax narrativo che ti lascia il segno. Sucker Punch dimostra grande maestria nel mettere in scena momenti di altissimo valore artistico, pescando a piene mani dalla mitologia e dal cinema giapponese. I duelli sono pieni di primi piani carichi di tensione: foglie al vento e silenzi che urlano più forte delle parole.

Ghost of Yotei recensione

Il viaggio attraverso Ezo non è solo geografico ma anche interiore. Piano piano la vendetta smette di essere l’unica cosa che conta. Atsu inizia a legarsi suo malgrado ad altri personaggi ed emergono temi come la possibilità di redenzione, anche per chi è stato consumato dal dolore. La solitudine più nera può conoscere una forma di calore umano, accorgendosi che si è mai completamente soli quando si accetta di abbassare la guardia.

C’è poi un elemento narrativo ancestrale: il lupo. All’inizio dell’avventura questo compagno a quattro zampe non è sotto il nostro controllo diretto. Vaga libero e decide autonomamente se e come intervenire nelle situazioni. È un rapporto che deve crescere lentamente attraverso delle azioni condivise e delle missioni a tema. Ognuna di queste rafforza il legame di fiducia, più ci prendiamo cura di lui e più sarà disposto a rispondere ai nostri comandi, rivelando abilità sempre più utili. È una piccola perla di game design, in grado di arricchire sia la narrazione che il gameplay.

Dove la scrittura perde un po’ di smalto è nelle missioni secondarie e nei personaggi di secondari. Gli alleati che incontriamo risultano spesso poco profondi e macchiettistici. Le loro storie non hanno la stessa intensità dell’arco principale. Un “classico” che affligge gli open world moderni, dove tutto ciò che è facoltativo ed inevitabilmente più debole rispetto alla campagna principale.

Anche la tanto decantata libertà di scelta nell’ordine degli assassinii è vera solo in parte. SONY ha fatto grande pubblicità su questo aspetto ma nella pratica va comunque seguita una gerarchia quasi completamente prestabilita. Un minimo di libertà è garantito nelle prime ore di gioco, poi il percorso diventa piuttosto lineare. Chi ha giocato Assassin’s Creed Shadows sa che si può fare molto di più su questo fronte.

Pro di storia e personaggi:

  • protagonista sfaccettata e lontana dallo stereotipo dell’eroe perfetto;
  • arco narrativo della vendetta emotivamente coinvolgente;
  • regia cinematografica che omaggia i classici del cinema giapponese;
  • il legame con il lupo è gestito in modo intelligente e organico;
  • flashback ben dosati che arricchiscono la caratterizzazione;
  • temi maturi come redenzione e solitudine trattati con rispetto;

Contro di storia e personaggi:

  • personaggi secondari poco memorabili e macchiettistici;
  • missioni facoltative spesso banali e ripetitive;
  • libertà di scelta nell’ordine degli obiettivi meno rivoluzionaria del previsto;
  • alcune svolte narrative risultano prevedibili.

Ghost of Yotei recensione

Gameplay: l’arte della lama perfezionata

Ghost of Yotei è un action adventure open world in terza persona, con tutte le meccaniche che ormai conosciamo a memoria. Esplorazione libera, obiettivi principali dorati ben evidenziati sulla mappa, tonnellate di attività secondarie sparse per il territorio, sistema di progressione basato su alberi delle abilità. È una formula consolidata negli ultimi dieci anni e Sucker Punch non ha alcuna intenzione di rivoluzionare nulla.

La mappa si svela progressivamente mentre esploriamo il mondo di gioco e ci sono indicatori per ogni tipo di attività. Ricordate le canne di bambù da tagliare e gli onsen in cui rilassarsi di Tsushima? Ecco quella roba torna con numerose aggiunte: possiam dipingere scenari usando la superficie touch del DualSense, dare la caccia a criminali ricercati per riscuotere taglie, cercare tane di lupi e volpi da seguire. Ci sono, inoltre, funghi da raccogliere e cucinare, fuochi da accendere e altari della riflessione dove migliorare le nostre abilità.

A proposito di minigiochi: ce ne sono davvero tanti e forse troppi. Molti fanno uso spropositato del touchpad del DualSense e dopo un po’ iniziano a stancare. È chiaro l’intento di Sucker Punch di incentivare la “varietà” ma la sensazione è che abbiano esagerato con la quantità, sacrificandone la qualità.

Il sistema di progressione è volutamente semplice e ancorato al passato del genere. Niente derive ruolistiche alla Assassin’s Creed con statistiche infinite da gestire. Qui abbiamo un doppio binario: da un lato sbloccano abilità seguendo diversi rami di talenti che toccano movimento, stealth e stili di combattimento. Dall’altro lato, invece, c’è lo sblocco progressivo di armi e gadget legato all’esplorazione e alle missioni. È un sistema che funziona perché è leggero e immediato. Ci stimola ad esplorare se vogliamo davvero arricchire il nostro arsenale ma non ci opprime con troppe scelte.

Ghost of Yotei recensione

Le armature sono le uniche che danno bonus alle statistiche. Poi ci sono copricapi e maschere, più tutte le skin estetiche che si sbloccano giocando. Niente microtransazioni invasive, tutto si guadagna sul campo e questo è un pregio non da poco di questi tempi. Ma è sul fronte dei combattimenti che Yotei cerca di brillare davvero. La base di partenza è quella solida di Tsushima, con un mix tra l’immediatezza degli action adventure classici e un layer più tecnico che richiede precisione. Il tempismo è fondamentale: schivate e parate possono diventare perfette se eseguite nel momento giusto, aprendo la strada a contrattacchi devastanti. Grande novità è data dal sistema di sbilanciamento e disarmamento (nostro e degli avversari) che aggiunge un ulteriore layer strategico.

La vera novità è la varietà dell’arsenale di Atsu, che introduce una sorta di “morra cinese” negli scontri. Man mano che procedi nella storia impari che a una katana si risponde con un’altra katana. Lo yari (la lancia giapponese) è utilissimo contro nemici che brandiscono due lame e il kusarigama (la catena con falce) demolisce gli scudi. Cambiare arma al volo diventa cruciale negli scontri più caotici quando ci si ritrova circondati da sette o otto avversari diversi.

I duelli uno contro uno scandiscono le fasi più cinematografiche del gioco e sono autentici momenti di tensione pura. Non siamo ai livelli di un soulslike sia chiaro ma c’è abbastanza profondità da rendere ogni scontro impegnativo e soddisfacente. Gli avversari hanno più resistenza rispetto al primo capitolo: non cadono al primo colpo, occorre studiare i loro pattern di attacco e rispondere di conseguenza. Quando riusciamo a concatenare parate perfette e contrattacchi, senza prendere un graffio, ci sentiamo davvero dei maestri della spada.

Lo stealth è presente ma rimane piuttosto basilare. Ci possiamo avvicinare ai nemici di soppiatto ed eliminarli silenziosamente, usare l’ambiente per nasconderci. Ma è un sistema leggero che si rompe facilmente e il gioco non ci punisce abbastanza se preferiamo un approccio diretto. Anzi, spesso lo scontro frontale è più soddisfacente e divertente.

Ghost of Yotei recensione

C’è finalmente un sistema di lock sui bersagli, una delle richieste più frequenti dopo Tsushima. Il problema è che, di base, è disattivato e il gioco non fa praticamente nulla per suggerirci di usarlo. E anche quando lo si abilita, la gestione della telecamera negli scontri più concitati rimane problematica. Quando abbiamo otto nemici intorno che ci attaccano da ogni direzione fare affidamento solo su piccoli aloni bianchi ai bordi dello schermo (per capire da dove arrivano i colpi) non è il massimo.

La telecamera, in generale, può dare fastidio. A volte, per scelte registiche, è troppo ravvicinata e si perde il controllo della situazione. Nei combattimenti più caotici, la quantità di comandi da gestire può diventare eccessiva con decine di armi secondarie e gadget spesso nascosti in sottomenu di selezione rapida. Serve un po’ di pratica per padroneggiare tutto l’arsenale (senza andare nel panico).

L’esplorazione del mondo è piacevole. Ezo è un territorio vasto e vario, che spazia da villaggi innevati a foreste fitte fino a montagne impervie. Le distanze sono generose ma mai eccessive. Possiamo cavalcare il nostro destriero per spostartci rapidamente oppure usare i punti di viaggio rapido sparsi per la mappa. Le tempeste di neve diventano vere e proprie trappole ambientali che riducono la visibilità e ci costringono a cercare riparo.

In termini di longevità, il gioco offre circa 40 ore per completare la storia principale e un bel numero di attività secondarie. Se vogliamo il 100% possiamo tranquillamente superare le 50 ore. Chi va spedito, concentrandosi solo sulla campagna, può finire in una ventina d’ore ma rischia di trovarsi in difficoltà negli scontri finali non avendo sviluppato, a dovere, le potenzialità di Atsu.

Pro del gameplay:

  • sistema di combattimento raffinato con più varietà di armi
  • il tempismo nelle parate e schivate rende gli scontri soddisfacenti
  • progressione leggera e mai opprimente
  • niente microtransazioni invasive
  • i duelli uno contro uno sono intensi e memorabili
  • mappa ben dimensionata che non risulta né troppo piccola né sterminata
  • il sistema di armi introduce una componente tattica interessante

Contro del gameplay:

  • troppi minigiochi che alla lunga stancano;
  • sistema di lock presente ma poco efficace;
  • gestione della telecamera problematica negli scontri concitati;
  • stealth basilare e poco sviluppato;
  • comandi possono diventare soverchianti nell’endgame;
  • nessuna vera innovazione rispetto agli standard del genere.

Ghost of Yotei recensione

Comparto tecnico e artistico: poesia e compromessi

Ghost of Yotei possiede due anime ben distinte, che non sempre si sposano alla perfezione. Dal punto di vista artistico siamo davanti a un capolavoro assoluto. I paesaggi di Ezo sono semplicemente mozzafiato. Ogni panorama sembra dipinto a mano, con una cura maniacale per il dettaglio. Le risaie che fumano al sorgere del sole con il monte Yotei sullo sfondo, lle foreste di betulle che ondeggiano al vento, le tempeste di neve che trasformano il mondo in un velo bianco impenetrabile e i villaggi tradizionali con i tetti ricoperti di neve fresca.

La ricerca estetica rasenta il poetico. Petali che volano, foglie rosse che danzano nell’aria, raggi di luce che filtrano tra i rami. Il ciclo giorno-notte,  combinato con quello meteorologico,  crea momenti di pura magia visiva. Spesso e volentieri ci si ferma semplicemente a guardare il tramonto dipingersi sul ghiaccio e finire col perdersi nell’atmosfera (e nella modalità fotografica). Sucker Punch dimostra una sensibilità artistica fuori dal comune nel restituire la bellezza selvaggia del Giappone feudale del nord.

La direzione fotografica, poi, è da manuale. Possiamo attivare vari filtri in stile Kurosawa, che trasformano il gioco in un film in bianco e nero con grana della pellicola. Oppure scegliere palette più calde o fredde, a seconda dell’atmosfera che vogliamo creare. La modalità foto è ricchissima di opzioni e ci permette di immortalare degli scatti degni di una mostra d’arte.

Ma quando passiamo all’aspetto tecnico puro le cose si complicano. La modellazione dei personaggi – e soprattutto dei loro volti – appartiene a un’altra generazione. Durante il gameplay in tempo reale i volti sembrano rigidi e poco espressivi. È solo nelle cutscene prerenderizzate che il motore grafico viene spinto al massimo e i risultati migliorano sensibilmente. Ma il divario è evidente e spezza un po’ l’immersione.

Gli interni delle abitazioni poi sono piuttosto spogli. Certamente è coerente con l’epoca e con lo stile di vita spartano di queste terre, ma dal punto di vista tecnico, i mobili e gli oggetti mancano di dettaglio e varietà. È chiaro che gli sforzi maggiori sono stati concentrati sugli esterni dove il gioco dà il meglio di sé.

Su PlayStation 5 si hanno a disposizione quattro modalità grafiche tra cui scegliere. La classica performance che punta ai 60 fps, la modalità qualità che privilegia la risoluzione, una modalità ibrida che attiva anche il ray tracing ed infine la modalità esclusiva per PS5 Pro che combina il massimo dei dettagli con un frame rate stabile intorno ai 60 fps. Quest’ultima è chiaramente l’opzione migliore se si possoede la console potenziata, in quanto elimina i compromessi e ci permette di godere sia della bellezza che della fluidità.

Ghost of Yotei recensione

Nelle modalità standard su PS5 base possono verificarsi cali di frame rate nelle aree più dense di dettagli. Soprattutto durante le tempeste di neve (quando gli effetti particellari si moltiplicano sullo schermo). Niente di drammatico ma abbastanza per essere notato. Alcuni piccoli difetti tecnici –  come pop-in delle texture o compenetrazioni occasionali – si fanno vedere qua e là. Sono inezie che non rovinano l’esperienza ma in una produzione di questo calibro ci si aspettava una rifinitura maggiore.

Il comparto sonoro, invece, è semplicemente eccellente. Il tema principale è bellissimo e si cementa nelle memorie. Le musiche tradizionali giapponesi dell’epoca, con l’uso massiccio dello shamisen sono perfettamente amalgamate al racconto. Ogni momento ha il suo accompagnamento musicale azzeccato. I silenzi poi sono usati con maestria per creare tensione prima degli scontri o delle rivelazioni narrative.

Il doppiaggio italiano è di qualità altissima come ormai ci ha abituati SONY. La recitazione è convincente con una bella varietà di timbri vocali. Il missaggio dei volumi è perfetto e non hai mai problemi a sentire i dialoghi anche durante le fasi più concitate. C’è ovviamente anche la possibilità di giocare con l’audio giapponese originale e sottotitoli per chi preferisce l’esperienza più autentica.

Gli effetti sonori in combattimento meritano una menzione particolare. Ogni colpo di katana ha un peso specifico. Il sibilo della lama che fende l’aria, Il rumore sordo dell’acciaio che incontra la carne, i versi gutturali dei nemici colpiti a morte, il vento che sibila tra gli alberi e la neve che scricchiola sotto i piedi. È tutto curato nei minimi dettagli e contribuisce enormemente all’immersione.

Il DualSense viene sfruttato bene con feedback aptico differenziato per ogni tipo di azione. Si sente la tensione dell’arco quando miriano con la freccia, le vibrazioni diverse a seconda della superficie su cui camminiamo e la resistenza dei grilletti quando blocchiamo un attacco. Non è nulla di rivoluzionario, ma aggiunge quel tocco in più di connessione fisica con il gioco.

Pro del comparto tecnico e artistico:

  • direzione artistica da standing ovation;
  • panorami e ambientazioni mozzafiato;
  • modalità foto ricchissima di opzioni;
  • comparto sonoro eccellente con musiche tradizionali azzeccate;
  • doppiaggio italiano di altissimo livello;
  • uso sapiente di silenzi e musica per creare atmosfera;
  • effetti sonori di combattimento curati nei dettagli;
  • buon utilizzo delle funzionalità del DualSense.

Contro del comparto tecnico e artistico:

  • modellazione dei volti dei personaggi sottotono;
  • interni delle abitazioni spogli e poco dettagliati;
  • piccoli difetti tecnici come pop-in e compenetrazioni;
  • divario evidente tra cutscene e gameplay in tempo reale.

Ghost of Yotei

Confronto con Ghost of Tsushima: evoluzione o ripetizione?

Fare il confronto tra Ghost of Yotei e il suo predecessore è inevitabile. Tsushima nel 2020 era arrivato come una ventata d’aria fresca nel panorama degli action adventure open world. Aveva uno stile visivo fortissimo, una storia coinvolgente, un protagonista carismatico in Jin Sakai e soprattutto un’identità ben definita che pescava a piene mani dalla cultura e dal cinema giapponese senza filtri occidentali.

Ghost of Yotei eredita tutto questo DNA e lo porta avanti con orgoglio. Ma al tempo stesso non fa praticamente nulla per evolverlo o metterlo in discussione. È un sequel che gioca sul sicuro. Rifinisce le meccaniche, aggiunge varietà dove serviva, corregge alcuni difetti tecnici ma non prova a reinventare la ruota o a proporre una visione radicalmente diversa.

Dal punto di vista narrativo, Yotei è più cupo e spietato. Jin era un samurai che doveva scegliere tra onore e pragmatismo. Atsu è una mercenaria che ha già fatto la sua scelta e non ha più nulla da perdere. È un cambio di tono apprezzabile che rende questo capitolo più maturo e meno romantico. Non c’è quell’idealismo malinconico che permeava Tsushima, qui la violenza è più cruda e le conseguenze delle azioni pesano di più.

Il mondo di gioco è simile nelle dimensioni ma molto diverso nell’atmosfera. Tsushima era l’isola giapponese classica con i suoi templi e i suoi campi fioriti. Ezo è una terra gelida e ostile dove la natura stessa sembra voler ucciderti. Questa differenza climatica e geografica non è solo estetica ma influenza anche il gameplay, con le tempeste di neve che diventano ostacoli reali.

Il sistema di combattimento è l’area dove Yotei fa il salto qualitativo più evidente. Tsushima aveva quattro stance base e poche armi alternative. Qui abbiamo a disposiziione un arsenale molto più ricco, con katana doppie, yari, kusarigama e tanti altri strumenti di morte. Il sistema di morra cinese tra le armi aggiunge una componente tattica che prima mancava, gli scontri sono più vari e richiedono più adattabilità.

Lo stealth non ha subito grandi evoluzioni ed è rimasto basilare in entrambi i capitoli. Le missioni secondarie soffrono dello stesso identico problema: sono ripetitive e meno interessanti dell’arco principale. Il sistema di progressione è stato alleggerito rispetto alle derive più ruolistiche che Tsushima aveva timidamente introdotto nell’espansione Iki Island.

Tecnicamente Yotei è superiore dove conta di più: negli ambienti esterni e negli effetti atmosferici, ma i personaggi e gli interni mostrano limiti simili se non peggiori. Tsushima girava su PS4 ed era un miracolo tecnico per quella piattaforma, Yotei su PS5 non fa lo stesso salto generazionale che ci si aspettava. È bello, certo, ma non “next-gen” nel senso più profondo del termine.

La struttura open world è identica in entrambi i giochi. Stessi indicatori, stesso tipo di attività e stessa filosofia di design. Se Tsushima vi aveva annoiato in alcuni suoi aspetti Yotei non risolverà il problema. Se invece vi era piaciuto qui troverete esattamente quello che cercate, con in più qualche miglioria qua e là.

Per chi ha amato Tsushima e vuole semplicemente rivivere quella esperienza in un contesto nuovo, Yotei è l’acquisto perfetto. Per chi cerca evoluzione vera e innovazione questo gioco potrebbe deludere le aspettative. È il classico sequel che predica ai convertiti senza cercare di conquistare nuovi fedeli.

Little Nightmares 3, la recensione su Xbox Series X

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Il terzo capitolo della saga degli incubi arriva finalmente nelle mani dei giocatori dopo un’attesa carica di aspettative e qualche preoccupazione. Supermassive Games raccoglie il testimone lasciato da Tarsier Studios e lo fa con un approccio che oscilla tra il rispetto reverenziale e il tentativo di imprimere una propria firma. Il risultato è un gioco che funziona e intrattiene ma che non riesce a scrollarsi di dosso la sensazione di essere un’opera di passaggio piuttosto che un vero balzo in avanti per la serie.

Little Nightmares 3 presenta, per la prima volta nella saga, la possibilità di affrontare l’avventura in cooperativa online. Si controllano Low e Alone, due bambini perduti nella Spirale che cercano disperatamente una via d’uscita dal Nulla. Arco e chiave inglese in mano, i due protagonisti devono collaborare per superare enigmi ambientali e sfuggire a creature grottesche in un mondo che sembra uscito dai peggiori incubi dell’infanzia.

La direzione artistica rimane uno dei punti di forza assoluti e la componente sonora continua a lavorare magistralmente sul sottotesto dell’orrore. La cooperativa funziona discretamente anche se l’intelligenza artificiale mostra evidenti limiti quando si gioca in solitaria. Il gameplay risulta più semplice rispetto ai capitoli precedenti e la durata complessiva si aggira sulle quattro ore per completare la storia principale. Gli enigmi non brillano per originalità e il combattimento appare poco sviluppato e troppo guidato. Manca, inoltre, quella figura antagonista centrale capace di incarnare l’incubo come nei capitoli precedenti. La conservazione della formula originale è un’arma a doppio taglio: rassicura i fan ma impedisce al gioco di sorprendere davvero.

little nightmares 3 recensione

Storia e personaggi

La narrazione di Little Nightmares ha sempre giocato sulla suggestione più che sull’esplicitazione. Anche questo terzo capitolo mantiene fede alla tradizione, proponendo una storia allegorica che affonda le radici nelle paure infantili più profonde. Low e Alone sono due bambini che si risvegliano in un mondo ostile dopo aver attraversato uno specchio misterioso. La loro meta è la Spirale, un insieme di luoghi inquietanti che dovrebbero condurli fuori dal Nulla.

La scelta di introdurre due protagonisti che cooperano rappresenta una svolta rispetto alla solitudine che caratterizzava Six e Mono. Questa volta la paura diventa qualcosa da condividere e il legame tra i due bambini emerge più attraverso le azioni che tramite dialoghi o cutscene elaborate. Low indossa una maschera da corvo e impugna un arco mentre Alone veste una tuta verde da aviatrice e brandisce una chiave inglese. Le loro personalità emergono timidamente attraverso piccoli gesti come darsi una mano per superare un ostacolo o chiamarsi quando uno dei due si allontana troppo.

Il mondo che li circonda rimane fedele all’estetica della serie: adulti mostruosi intenti nelle loro ossessioni quotidiane e scenari che distorcono la realtà in chiave onirica. Si attraversano deserti abitati da creature impossibili, fabbriche di dolciumi che nascondono orrori dietro colori sgargianti e carnevali dove l’allegria si trasforma in incubo. Ogni ambientazione racconta una storia senza bisogno di parole e questo è uno degli aspetti che la saga ha sempre gestito con maestria.

Tuttavia manca quella tensione narrativa che nei capitoli precedenti cresceva fino a esplodere in momenti memorabili. La Signora del primo capitolo e Lo Smilzo del secondo erano figure antagoniste capaci di incarnare l’orrore dell’intera esperienza. In Little Nightmares 3 gli antagonisti sono numerosi ma nessuno riesce a lasciare un’impronta così profonda. Il Monster Baby che apre il gioco è visivamente impressionante ma non diventa mai l’icona che ci si aspetterebbe. La Supervisora della fabbrica di dolciumi rappresenta un interessante mix di burocrazia e follia ma compare troppo poco per risultare davvero minacciosa.

Il finale cerca di chiudere il cerchio con i capitoli precedenti ma lo fa in maniera che può risultare criptica per chi non conosce a fondo la lore della serie. È una scelta che premia i fan di lunga data ma rischia di spiazzare chi si avvicina per la prima volta al franchise. La sensazione generale è quella di un capitolo che funziona più come ponte narrativo che come storia autoconclusiva.

Pro e Contro – Storia e Personaggi

Pro:

  • l’atmosfera onirica e inquietante della serie viene preservata con cura;
  • il legame tra Low e Alone emerge in modo naturale attraverso il gameplay cooperativo;
  • le ambientazioni continuano a raccontare storie senza bisogno di dialoghi espliciti;
  • la direzione artistica dei nemici rimane di altissimo livello;
  • i riferimenti alla lore precedente premiano i fan storici.

Contro:

  • assenza di una figura antagonista centrale davvero memorabile;
  • la narrazione risulta troppo criptica per i nuovi arrivati;
  • il finale lascia molte domande senza risposta;
  • i personaggi di Low e Alone mancano di profondità rispetto a Six;
  • la storia non riesce a raggiungere picchi emotivi paragonabili ai capitoli precedenti.

little nightmares 3 recensione

Gameplay: cooperazione e compromessi

Little Nightmares 3 introduce la cooperativa online come elemento distintivo ma lo fa con risultati alterni. La possibilità di giocare con un amico rappresenta sicuramente una novità interessante per la serie e in alcuni momenti funziona bene. Risolvere enigmi coordinandosi con un’altra persona aggiunge una dimensione sociale che può rendere l’esperienza più coinvolgente. Il problema emerge quando si gioca in solitaria affidandosi all’intelligenza artificiale.

L’IA che controlla il secondo personaggio mostra evidenti limiti. Ci sono situazioni in cui il compagno rimane immobile invece di eseguire azioni necessarie per progredire. Chiamare il partner con l’apposito comando a volte aiuta ma altre volte non sortisce alcun effetto. Questa discontinuità spezza il ritmo del gioco e trasforma momenti che dovrebbero essere fluidi in sessioni di trial and error frustranti. Il fatto che l’IA alterni fasi di autonomia efficace a momenti di totale passività crea una sensazione di inaffidabilità che danneggia l’esperienza complessiva.

Gli enigmi ambientali rappresentano il cuore del gameplay come sempre nella serie. Si tratta principalmente di puzzle che richiedono di spostare oggetti, attivare meccanismi e coordinare le azioni dei due personaggi. Low può usare il suo arco per colpire bersagli distanti o tagliare corde mentre Alone impiega la chiave inglese per abbattere muri fragili o interagire con ingranaggi. Sulla carta le meccaniche funzionano e offrono varietà ma nella pratica risultano troppo semplificate rispetto ai capitoli precedenti.

La difficoltà complessiva è stata abbassata in maniera evidente. Gli enigmi raramente richiedono più di qualche minuto per essere risolti e spesso la soluzione è così palese da eliminare qualsiasi senso di soddisfazione quando si trova la risposta. Questo approccio rende il gioco più accessibile ma toglie quella componente di sfida che nei primi due capitoli creava tensione e coinvolgimento. L’introduzione dell’ombrello, come strumento per planare, rappresenta forse l’unica meccanica davvero riuscita ma viene abbandonata a metà gioco senza un motivo apparente.

little nightmares 3 recensione

Il combattimento fa la sua comparsa in Little Nightmares 3 ma in forma talmente basilare da sembrare un’aggiunta dell’ultimo minuto. Low può stordire i nemici con le frecce e Alone può finirli con la chiave inglese. Il sistema funziona in teoria ma nella pratica si riduce a sequenze guidate dove i personaggi puntano e colpiscono quasi automaticamente. Manca qualsiasi profondità tattica e dopo le prime volte diventa una routine priva di mordente.

Le sezioni stealth costituiscono buona parte dell’esperienza e qui Little Nightmares 3 mantiene gli standard della serie. Nascondersi dai nemici e studiarne i pattern di movimento crea quella tensione che ha sempre caratterizzato il franchise. Tuttavia, anche in questo caso, emerge una certa ripetitività. Le situazioni si susseguono senza variazioni significative e la sensazione di déjà-vu diventa sempre più forte man mano che si procede.

La durata rappresenta un altro punto dolente. L’avventura principale si completa in circa quattro ore e anche cercando tutti i collezionabili difficilmente si superano le sei ore. Per un gioco a prezzo pieno la proposta appare piuttosto risicata. La rigiocabilità è praticamente nulla perché scegliere l’altro personaggio non cambia nulla se non il punto di vista. Gli enigmi rimangono identici e non ci sono percorsi alternativi da scoprire.

Le fasi di fuga rappresentano i momenti più riusciti del gameplay. Quando il gioco abbandona gli enigmi e costringe a correre disperatamente mentre un mostro insegue si raggiungono picchi di adrenalina che ricordano i momenti migliori della serie. Purtroppo queste sequenze sono troppo rare e quando arrivano spesso risultano più frustranti che divertenti a causa di comandi non sempre reattivi.

Pro e Contro – Gameplay

Pro:

  • la cooperativa online aggiunge una dimensione sociale interessante;
  • l’ombrello come meccanica di planata funziona bene finché dura;
  • le sezioni stealth mantengono la tensione tipica della serie;
  • i momenti di fuga possono raggiungere picchi adrenalinici;
  • il sistema di checkpoint è generoso e riduce la frustrazione.

Contro:

  • l’intelligenza artificiale del compagno è estremamente discontinua;
  • gli enigmi risultano troppo semplici e poco originali;
  • il combattimento è superficiale e troppo guidato;
  • la durata complessiva è troppo breve per il prezzo richiesto;
  • assenza totale di rigiocabilità;
  • i comandi a volte risultano poco reattivi nei momenti cruciali;
  • manca il co-op locale che avrebbe reso l’esperienza molto più accessibile.

little nightmares 3 recensione

Dimensione artistica: bellezza inquietante

Dal punto di vista artistico, Little Nightmares 3 conferma che la serie continua a possedere uno stile riconoscibile e affascinante. La direzione artistica rappresenta forse l’aspetto più riuscito dell’intera produzione. Supermassive Games ha compreso che tradire l’estetica consolidata sarebbe stato un errore fatale e ha scelto di conservare e amplificare gli elementi visivi che hanno reso unici i capitoli precedenti.

Gli scenari mantengono quella qualità onirica e disturbante che ha sempre caratterizzato la serie. Ogni ambientazione racconta una storia attraverso dettagli ambientali curati con  attenzione maniacale. La fabbrica di dolciumi, con i suoi colori sgargianti che nascondono orrori industriali, rappresenta un perfetto esempio di come il gioco sappia sovvertire immagini rassicuranti trasformandole in fonte di inquietudine. Il carnevale notturno, con le sue giostre illuminate e le maschere grottesche, crea un’atmosfera sospesa tra il festoso e il macabro.

Le ambientazioni risultano più ampie e verticali rispetto ai capitoli precedenti. Si percepisce l’influenza dello stile registico di Supermassive, che lavora molto sull’inquadratura e sulla profondità di campo. Gli spazi non sono più semplici percorsi lineari ma si aprono in aree più articolate dove la camera si muove con maggiore libertà. Questo approccio crea momenti visivamente spettacolari ma a volte va a discapito della leggibilità delle situazioni di gioco.

L’uso del colore merita un discorso a parte. Little Nightmares 3 gioca magistralmente con palette monocromatiche, dove ogni variazione cromatica acquista un peso simbolico importante. Un tocco di rosso in un ambiente dominato dal grigio diventa immediatamente un punto focale che guida l’occhio del giocatore. Un bagliore azzurro, in mezzo a toni gialli e marroni, assume significati che vanno oltre la pura estetica. È una scelta poetica che eleva la componente visiva a forma d’arte vera e propria.

Il character design dei nemici conferma gli standard altissimi della serie. Ogni creatura è un capolavoro di design inquietante che mescola elementi umani deformati con caratteristiche grottesche. La segretaria-ragno, che fruga ossessivamente nel suo schedario, rappresenta una brillante metafora della burocrazia che schiaccia l’individuo. Il Monster Baby che apre il gioco è un incubo fatto di proporzioni sbagliate e movimenti innaturali. Ogni antagonista potrebbe essere uscito da un quadro espressionista o da un cortometraggio di Tim Burton.

little nightmares 3 recensione

Tuttavia l’aspetto grafico non è privo di difetti. Tecnicamente il gioco mostra qualche incertezza con texture non sempre all’altezza delle aspettative e un framerate che in alcune sezioni tende a calare in maniera fastidiosa. Nulla di drammatico ma abbastanza per essere notato. L’illuminazione dinamica funziona bene nella maggior parte delle situazioni ma ci sono momenti in cui le ombre risultano poco naturali.

Il comparto sonoro rappresenta l’altra metà del quadro artistico e qui Little Nightmares 3 centra perfettamente il bersaglio. Il sound design è semplicemente eccellente. Ogni ambiente possiede una propria identità sonora costruita attraverso rumori ambientali che creano tensione senza mai essere invadenti. Il cigolio di una porta, il rumore di passi che si avvicinano, il respiro affannoso dei protagonisti: ogni elemento audio contribuisce a costruire un’atmosfera opprimente.

La colonna sonora viene usata con parsimonia e questo ne aumenta l’impatto quando entra in scena. La musica non accompagna costantemente l’azione ma interviene nei momenti chiave, amplificando le emozioni. Quando parte durante una sequenza di fuga il cuore inizia a battere più forte, quando si fa sentire durante un momento di quiete apparente crea un senso di disagio che prepara a quello che sta per accadere.

Il silenzio viene sfruttato come elemento narrativo quanto il suono. Ci sono lunghe sequenze dove l’unico rumore è quello dei passi dei protagonisti, ed è proprio questa assenza di stimoli sonori a creare la maggiore tensione. L’orecchio si affina, cercando di captare qualsiasi segnale di pericolo e ogni piccolo rumore diventa fonte di allarme. È un uso maturo del sound design, che pochi giochi riescono a padroneggiare con questa efficacia.

Gli effetti sonori legati ai nemici sono particolarmente riusciti. Ogni creatura possiede una propria firma audio che la rende riconoscibile anche quando non è visibile. Si impara presto a distinguere i suoni e a reagire di conseguenza, creando un legame diretto tra audio e gameplay che funziona alla perfezione. Il ringhio del Monster Baby o il fruscio della Supervisora diventano campanelli d’allarme che innescano risposte immediate.

Pro e Contro – Dimensione Artistica

Pro:

  • direzione artistica di altissimo livello con scenari memorabili;
  • character design dei nemici eccellente e disturbante al punto giusto;
  • uso magistrale del colore con palette che assumono valore simbolico;
  • sound design praticamente perfetto con grande attenzione ai dettagli;
  • la colonna sonora usata con parsimonia aumenta il suo impatto emotivo;
  • il silenzio viene sfruttato brillantemente come elemento narrativo;
  • ogni ambiente possiede una forte identità visiva e sonora.

Contro:

  • qualche incertezza tecnica con texture non sempre ottimali;
  • il framerate cala in alcune sezioni più complesse;
  • l’illuminazione dinamica mostra occasionali imperfezioni;
  • le ambientazioni più ampie a volte creano problemi di leggibilità;
  • manca quella rottura visiva che rendeva unici alcuni livelli del primo capitolo.

Silent Hill f, la recensione su Xbox Series X

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Dopo anni di silenzio che hanno fatto tremare i fan più della nebbia stessa, Silent Hill torna con un capitolo che promette di scuotere le fondamenta della serie. Silent Hill f rappresenta il primo vero tentativo di portare il franchise horror più iconico del mondo videoludico lontano dalle sue radici, per immergerlo completamente nella cultura giapponese degli anni ’60. Sviluppato da NeoBards Entertainment con la supervisione narrativa del celebre Ryukishi07 (creatore di Higurashi When They Cry), questo nuovo capitolo si presenta come un’esperienza che divide nettamente tra momenti di pura genialità artistica e frustrazioni tecniche che sembrano appartenere a un’altra epoca.

Il gioco ci catapulta nel villaggio immaginario di Ebisugaoka dove la sedicenne Hinako Shimizu si trova ad affrontare orrori che nascono tanto dalla società patriarcale dell’epoca quanto da creature mostruose partorite dalla nebbia. La promessa è ambiziosa: utilizzare il folklore giapponese come terreno fertile per seminare paure ancestrali e critiche sociali taglienti. Il risultato è un’opera che riesce a toccare vette narrative straordinarie, pur rimanendo imprigionata in meccaniche di gioco che sanno tremendamente di passato.

Dal punto di vista tecnico Silent Hill f dimostra come Unreal Engine 5 possa trasformare anche il più piccolo dettaglio in una meraviglia visiva. Tuttavia questa bellezza estetica si scontra brutalmente con un sistema di combattimento che definire obsoleto sarebbe un eufemismo. La vera forza del titolo risiede nella sua capacità di raccontare una storia profonda e stratificata, che richiede più di una singola partita per essere completamente compresa e apprezzata.

Il gioco si rivolge tanto ai veterani della serie quanto ai newcomer ma richiede pazienza e dedizione. Chi cerca adrenalina pura e combattimenti serrati rimarrà deluso, chi invece è disposto a immergersi in una narrazione complessa e simbolica troverà uno dei racconti videoludici più coraggiosi degli ultimi anni.

Storia e Personaggi: Un Affresco Sociale in Salsa Horror

Silent Hill f costruisce la sua narrazione attorno alla figura di Hinako Shimizu, una studentessa che vive in una famiglia dove la violenza domestica è pane quotidiano. Il contesto storico non è casuale: il Giappone degli anni ’60 rappresenta un periodo di transizione dove tradizioni ancestrali si scontrano con i venti del cambiamento sociale. Questo sfondo diventa il terreno perfetto per esplorare tematiche universali attraverso una filtro culturalmente identificato.

La storia prende avvio quando Hinako incontra i suoi compagni di classe – Sakuko, Rinko e Shu – presso l’emporio del villaggio. Quello che inizia come un pomeriggio normale si trasforma rapidamente in un incubo quando una creatura mostruosa emerge dalla nebbia. Questa entità possiede una caratteristica inquietante: dalle sue vittime iniziano a germogliare piante dalle foglie rosse che si diffondono come un’infezione vegetale attraverso il villaggio.

La genialità narrativa di Ryukishi07 emerge nella costruzione dei personaggi secondari. Sakuko rappresenta la docilità imposta dalla società ma nasconde segreti terrificanti. Rinko incarna la gelosia morbosa di chi ha accettato il proprio ruolo predefinito ma invidia chi prova a ribellarsi. Shu si presenta come l’interesse romantico “proibito” che simboleggia le scelte negate a Hinako dalla sua condizione sociale.

silent hill f recensione

Il vero colpo di genio risiede nella struttura narrativa a doppio binario. Il mondo reale di Ebisugaoka si alterna a sequenze ambientate in un santuario shintoista spettrale dove Hinako incontra la misteriosa Maschera di Volpe. Questo personaggio guida la protagonista attraverso rituali di purificazione che fungono da metafora per il processo di autoconsapevolezza e liberazione dalle catene sociali.

La critica sociale non rimane mai nascosta sotto strati di simbolismo incomprensibile. Il gioco affronta a viso aperto la condizione femminile nel Giappone patriarcale dell’epoca, dove le donne vengono considerate oggetti da scambiare o abbandonare secondo convenienza. La madre di Hinako rappresenta l’esempio perfetto di questa dinamica: una donna che ha subito violenze per tutta la vita e che ora cerca di convincere la figlia che “la felicità di una donna inizia col matrimonio”.

Pro di storia e personaggi:

  • narrazione coraggiosa che affronta temi sociali complessi senza timidezza;
  • personaggi stratificati con psicologie credibili e sfaccettate;
  • utilizzo intelligente del folklore giapponese per creare metafore horror efficaci;
  • sistema di New Game+ che aggiunge contenuti narrativi sostanziali invece di semplici scene bonus;
  • ambientazione storica ricostruita con cura maniacale nei dettagli.

Contro di storia e personaggi:

  • alcune virate fantasy risultano forzate e interrompono il realismo della narrazione;
  • la trama richiede letture multiple per essere compresa appieno, rischiando di escludere giocatori meno pazienti;
  • certi simbolismi risultano troppo espliciti perdendo parte del loro impatto;
  • i dialoghi in alcune sezioni suonano artificiali e didascalici.

Gameplay: tradizione e frustrazione si incontrano

Il sistema di gioco di Silent Hill f rappresenta un chiaro tentativo di riportare la serie alle sue radici survival horror più pure. Hinako si muove attraverso gli ambienti armata principalmente di oggetti improvvisati come bastoni, tubi e coltelli. L’assenza totale di armi da fuoco sottolinea la vulnerabilità del personaggio e costringe il giocatore a valutare attentamente ogni scontro.

Il combat system riprende la formula classica basata su attacchi e schivate ma lo fa in modo goffo e frustrante. Gli scontri risultano lunghi e ripetitivi mentre i controlli si dimostrano legnosi e imprecisi. Le armi si deteriorano con l’uso e, una volta rotte, devono essere sostituite, aggiungendo un elemento di gestione delle risorse che funziona sulla carta ma si traduce, in pratica, in momenti di pura frustrazione.

Il sistema a tre barre visibile nell’interfaccia introduce elementi interessanti. La Sanità mentale determina la capacità di concentrazione di Hinako e può essere utilizzata per attivare una modalità focus che rallenta i movimenti nemici. La Resistenza regola corsa e schivate mentre la Salute funziona in modo tradizionale. Gli oggetti curativi riflettono la cultura giappoese: Ramune, Arare e Yokan sostituiscono le classiche bevande e medicine occidentali.

silent hill f recensione

Gli Hokora (piccoli santuari) fungono da punti di salvataggio e sviluppo del personaggio. Attraverso gli Omamori (talismani) è possibile sbloccare nuove abilità utilizzando la “fede” come valuta di gioco. Questo sistema di progressione si integra naturalmente con l’ambientazione culturale senza mai risultare forzato.

La vera forza del gameplay risiede negli enigmi che permeano ogni aspetto dell’esperienza. Il gioco presenta puzzle complessi che richiedono attenzione ai dettagli ambientali e lettura approfondita dei documenti sparsi per il mondo di gioco. Sfortunatamente la localizzazione italiana compromette gravemente questa componente, rendendo alcuni enigmi quasi incomprensibili e costringendo a procedere per tentativi piuttosto che per logica.

L’esplorazione rappresenta l’aspetto più riuscito dell’esperienza ludica. Ebisugaoka si presenta come un labirinto di vicoli e abitazioni tradizionali, dove ogni angolo nasconde dettagli narrativi importanti. Il mondo si divide tra la dimensione reale e quella del santuario, seguendo la tradizione della serie ma con un approccio più netto e definito rispetto ai capitoli precedenti.

Il sistema di New Game+ merita una menzione speciale per la sua implementazione innovativa. Invece di limitarsi a ripetere l’avventura con modifiche minori, offre nuove aree da esplorare, enigmi inediti e dialoghi completamente diversi che espandono significativamente la comprensione della trama. Esiste anche un New Game++ che approfondisce ulteriormente l’esperienza narrativa.

Pro del gameplay:

  • enigmi complessi e stimolanti che richiedono vera deduzion;
  • sistema di progressione integrato naturalmente con l’ambientazione culturale;
  • esplorazione gratificante ricca di dettagli narrativi nascosti;
  • New Game+ sostanzioso che aggiunge contenuti reali invece di semplici ripetizioni;
  • atmosfera di vulnerabilità ben trasmessa attraverso l’assenza di armi da fuoco.

Contro del gameplay:

  • combat system obsoleto con controlli legnosi e animazioni datate
  • localizzazione italiana problematica che rovina la risoluzione degli enigmi
  • troppi scontri obbligatori che interrompono il ritmo esplorativo
  • gestione della telecamera inadeguata negli spazi ristretti
  • mancanza di opzioni di accessibilità per giocatori meno esperti

Dimensione artistica: quando la tecnologia incontra l’arte

Dal punto di vista tecnico Silent Hill f rappresenta probabilmente uno dei migliori esempi di utilizzo di Unreal Engine 5 visti finora nel panorama videoludico. Il motore grafico viene sfruttato per creare ambientazioni che trasudano atmosfera da ogni pixel. Il villaggio di Ebisugaoka prende vita attraverso una cura maniacale dei dettagli che trasforma ogni abitazione, ogni vicolo e ogni oggetto in un elemento narrativo significativo.

La palette cromatica gioca un ruolo fondamentale nel trasmettere le emozioni della storia. I toni caldi e nostalgici del Giappone anni ’60 si contrappongono ai rossi sangue delle infestazioni vegetali, creando un contrasto visivo che accompagna perfettamente la dicotomia tematica del gioco. La nebbia, elemento iconico della serie, viene utilizzata non solo come strumento atmosferico ma come vero e proprio personaggio che avvolge e trasforma la realtà.

Il design delle creature merita una menzione particolare per come riesce a fondere il folklore giapponese con l’estetica horror tipica di Silent Hill. I mostri non sono semplici accumuli di carne e sangue ma rappresentazioni simboliche delle paure e delle oppressioni sociali che affliggono i personaggi. Le “incubatrici di carne” costrette a partorire continuamente simboleggiano la riduzione della donna a mero strumento riproduttivo, mentre altre creature rappresentano diversi aspetti della violenza patriarcale.

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Il comparto sonoro si dimostra all’altezza dell’eccellenza visiva. La colonna sonora integra elementi della musica tradizionale giapponese con composizioni horror moderne  creando un soundscape che accompagna perfettamente ogni momento del gioco. I rumori ambientali contribuiscono a creare un senso di immersione totale, dove ogni scricchiolio e ogni sussurro assumono significato narrativo.

L’illuminazione dinamica gioca un ruolo cruciale nel creare atmosfera. I contrasti tra luci e ombre, non servono solo a creare tensione ma guidano l’occhio del giocatore verso elementi narrativi importanti. Le candele tremolanti del santuario, i lampioni fiochi del villaggio e i bagliori innaturali delle infestazioni vegetali contribuiscono a creare un mondo visivamente coerente e narrativamente significativo.

La direzione artistica dimostra una comprensione profonda sia della cultura giapponese che dell’estetica horror di Silent Hill. Ogni elemento visivo, dalla calligrafia sui documenti alle decorazioni delle abitazioni, riflette un’accurata ricerca storica che dona credibilità al mondo di gioco senza mai scadere nel folcloristico.

Pro della dimensione artistica:

  • utilizzo eccellente di Unreal Engine 5 con risultati visivi straordinari;
  • design delle creature intelligente e simbolicamente significativo;
  • palette cromatica perfettamente calibrata per sostenere la narrazione;
  • xomparto sonoro che fonde tradizione giapponese e horror moderno con maestria;
  • direzione artistica coerente che rispetta sia la cultura originale che l’estetica della serie.

Contro della dimensione artistica:

  • alcune texture mostrano segni di compressione eccessiva su console;
  • frame rate instabile in alcune sezioni più complesse visivamente;
  • effetti particellari delle infestazioni vegetali possono risultare ripetitivi;
  • mancanza di opzioni grafiche avanzate per personalizzare l’esperienza visiva.

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L’evoluzione di Silent Hill: passato, presente e futuro

Per comprendere appieno il significato di Silent Hill f è necessario contestualizzarlo all’interno della travagliata storia della serie. Dai capolavori originali firmati Team Silent fino ai controversi capitoli occidentali, il franchise ha attraversato alti e bassi che hanno segnato profondamente la percezione dei fan e della critica specializzata.

I primi quattro capitoli della serie hanno definito i canoni dell’horror psicologico nei videogiochi. Silent Hill, Silent Hill 2, Silent Hill 3 e Silent Hill 4: The Room hanno esplorato rispettivamente temi come la genitorialità corrotta, il lutto e la colpa, i drammi adolescenziali e l’isolamento sociale. Ognuno di questi titoli utilizzava la città di Silent Hill come specchio deforma

Il passaggio del franchise dalle mani giapponesi a quelle occidentali ha prodotto risultati contrastanti. Titoli come Silent Hill: Origins, Silent Hill: Homecoming e Silent Hill: Downpour hanno tentato di mantenere viva la formula originale con successo parziale. Questi capitoli, pur mantenendo elementi caratteristici della serie, hanno spesso privilegiato l’azione pura rispetto all’introspezione psicologica che aveva reso celebre il marchio.

Il periodo più buio della serie è coinciso con esperimenti discutibili come Silent Hill: Book of Memories che hanno tradito completamente lo spirito originale del franchise. La cancellazione di Silent Hills, il progetto che avrebbe dovuto segnare la rinascita della serie sotto la direzione di Hideo Kojima e Guillermo del Toro, ha rappresentato il punto più basso nella percezione pubblica del marchio.

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Silent Hill f si inserisce in questo contesto come tentativo di rilancio che guarda tanto al passato quanto al futuro. La scelta di affidare la narrazione a Ryukishi07 dimostra la volontà di tornare alle radici psicologiche della serie, pur esplorando nuovi territori culturali e tematici. Il folklore giapponese sostituisce le influenze occidentali senza tradire l’essenza horror del franchise.

L’approccio di NeoBards Entertainment rivela una comprensione profonda di cosa abbia reso speciale Silent Hill negli anni d’oro. Il focus su atmosfera, simbolismo e introspezione psicologica riporta la serie verso la sua identità originale. Tuttavia l’implementazione tecnica mostra tutti i limiti di uno studio di sviluppo che fino ad oggi si è occupato principalmente di porting e operazioni tecniche.

La sfida principale che Silent Hill f deve affrontare è dimostrare che la serie può ancora dire qualcosa di significativo nel panorama horror contemporaneo. Il mercato attuale privilegia esperienze immediate e accessibili, mentre Silent Hill ha sempre richiesto tempo, pazienza e riflessione. Il successo commerciale e critico di questo capitolo determinerà il futuro dell’intero franchise.

L’influenza del folk-horror contemporaneo è evidente nella costruzione narrativa e visiva del gioco. Film come Midsommar, Hereditary e The Wailing hanno dimostrato che il pubblico moderno è ancora ricettivo verso horror intelligente e simbolico. Silent Hill f cerca di cavalcare questa tendenza portando nel medium videoludico tematiche e stilemi tipici del cinema d’autore.

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In conclusione: un ritorno imperfetto ma necessario

Silent Hill f rappresenta molto più di un semplice nuovo capitolo di una serie storica. È un manifesto artistico che dimostra come il medium videoludico possa ancora affrontare tematiche sociali complesse, senza scadere nella predicazione o nella superficialità. La scelta di utilizzare l’horror come veicolo per esplorare la condizione femminile nel Giappone patriarcale degli anni ’60 è coraggiosa e necessaria, in un panorama spesso dominato da produzioni che privilegiano l’intrattenimento immediato rispetto alla riflessione profonda.

Il lavoro di Ryukishi07 emerge come il vero punto di forza dell’intera produzione. La sua capacità di intrecciare folklore, critica sociale e horror psicologico crea una narrazione stratificata che ricompensa multiple letture e interpretazioni. Il sistema di New Game+ non è un semplice espediente per allungare la longevità ma un elemento narrativo integrale che trasforma ogni nuova partita in un’esperienza di scoperta autentica.

Dal punto di vista tecnico, il gioco si presenta come un’arma a doppio taglio. L’eccellenza visiva raggiunta attraverso Unreal Engine 5 dimostra come la tecnologia possa servire l’arte senza mai sopraffarla. Ogni dettaglio ambientale contribuisce alla costruzione del mondo e alla trasmissione delle emozioni narrative. Tuttavia questa bellezza estetica si scontra brutalmente con meccaniche di gioco che sembrano appartenere a un’epoca passata.

Il combat system rappresenta il tallone d’Achille più evidente dell’intera produzione. Non si tratta semplicemente di controlli imprecisi o animazioni datate ma di una filosofia di design che appare disconnessa dalle ambizioni artistiche del progetto. La sensazione è che NeoBards Entertainment abbia eccellenti artisti e narratori ma manchi di programmatori capaci di tradurre queste visioni in meccaniche di gioco moderne ed efficaci.

La questione della localizzazione italiana merita una riflessione approfondita. Gli enigmi rappresentano da sempre uno degli elementi distintivi della serie Silent Hill e la loro compromissione, attraverso traduzioni imprecise, danneggia significativamente l’esperienza complessiva. Questo problema evidenzia come localizzazioni superficiali possano rovinare anche le produzioni più curate.

Nonostante questi limiti evidenti, Silent Hill F riesce a trasmettere un senso di necessità artistica che manca da troppo tempo nel panorama horror videoludico. Il gioco non si accontenta di spaventare attraverso jump scare o violenza gratuita ma costruisce un’atmosfera di disagio esistenziale che accompagna il giocatore anche dopo aver spento la console.

La vera domanda che Silent Hill f pone, non riguarda la sua qualità tecnica o la sua accessibilità commerciale, ma la sua rilevanza culturale. In un’epoca dove l’intrattenimento digitale spesso evita tematiche controverse – anche per non “escludere” segmenti di pubblico – questo titolo ha il coraggio di affrontare questioni universali attraverso una lente culturalmente identificata. Il risultato è un’opera imperfetta ma autentica, che merita rispetto e attenzione. Il futuro della serie Silent Hill dipenderà dalla capacità di imparare dagli errori di questo capitolo senza abbandonarne le ambizioni artistiche. Serve un equilibrio migliore, tra innovazione narrativa e solidità tecnica, per creare esperienze che possano competere nel mercato contemporaneo, senza tradire l’identità storica del franchise.

FC 26, la recensione su PS5

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FC 26 segna un nuovo punto di arrivo nella saga calcistica di Electronic Arts, che da qualche tempo ha abbandonato la licenza FIFA per costruire una propria identità. Questo terzo capitolo della serie EA Sports FC non rappresenta soltanto un’evoluzione, ma un cambio di punto di vista nel modo di concepire il calcio videoludico moderno. Il titolo presenta una proposta audace, che divide nettamente le esperienze di gioco tra competitiva e autentica, offrendo agli appassionati la possibilità di scegliere come vivere la propria passione.

La nuova filosofia progettuale pone al centro dell’esperienza il feedback della community, creando un prodotto che cerca di soddisfare sia i giocatori hardcore (che amano la competizione online) sia coloro che preferiscono un’esperienza più realistica e contemplativa. Gli Archetipi rappresentano forse la novità più interessante del titolo, permettendo di personalizzare il gioco ispirandosi ai grandi campioni della storia del calcio. Le migliorie tecniche sono evidenti soprattutto nella resa grafica che raggiunge livelli di fotorealismo impressionanti, specialmente sulel console di nuova generazione.

Tuttavia non tutto brilla in questo ambizioso progetto. Alcune modalità risultano ancora troppo legate al passato mentre certe dinamiche di monetizzazione continuano a generare non poche perplessità. La curva di apprendimento si è fatta più ripida, richiedendo un maggiore investimento di tempo per padroneggiare tutte le nuove meccaniche. Nonostante questi aspetti critici, FC 26 riesce ancora ad offrire un’esperienza complessivamente convincente che rappresenta un ulteriore passo avanti per la serie.

Le novità che ridefiniscono l’esperienza

La caratteristica più rivoluzionaria di FC 26 è la divisione del gameplay in due modalità distinte, che EA Sports definisce come una “esperienza di gioco rinnovata basata sul feedback della community”. La modalità competitiva si concentra sulla precisione dei controlli e sulla rapidità delle azioni, creando un ambiente ideale per i tornei online e le sfide più intense di Ultimate Team. La modalità autentica, invece, privilegia il realismo delle movenze e la fluidità delle azioni di gioco, offrendo un’esperienza più cinematografica e coinvolgente per chi cerca un calcio più vicino alla realtà.

Gli Archetipi rappresentano un’altra innovazione fondamentale, permettendo ai giocatori di personalizzare il proprio stile ispirandosi ai “Grandi della Storia”. Questi profili predefiniti catturano l’essenza di leggende del calcio, traducendo le loro caratteristiche distintive in bonus e abilità specifiche. Un giocatore può scegliere l’archetipo del Regista Visionario per migliorare la precisione dei passaggi lunghi, oppure optare per quello del Bomber Implacabile per aumentare la freddezza sotto porta. Sistema che aggiunge profondità strategica, senza complicare eccessivamente le meccaniche di base.

fc 26 recensione

La personalizzazione estetica raggiunge nuove vette, con oltre ventimila calciatori digitalizzati utilizzando tecnologie di scansione avanzate. I volti dei protagonisti mostrano un livello di dettaglio che si avvicina al fotorealismo, mentre le animazioni risultano più fluide e naturali rispetto al passato. Le celebrazioni sono state ampliate e diversificate, permettendo espressioni più autentiche della personalità di ciascun giocatore. Anche gli stadi hanno ricevuto un importante upgrade, con atmosfere più coinvolgenti e una resa acustica che trasmette davvero l’emozione delle grandi partite.

Ultimate Team introduce nuove carte speciali legate agli Archetipi, creando dinamiche collezionistiche inedite. Le sfide del manager hanno ricevuto una completa rivisitazione, con storyline dinamiche che si adattano alle performance del giocatore. Le competizioni online sono state riorganizzate con tornei più frequenti e premi più equilibrati. Il sistema di progressione è stato semplificato, rendendo più accessibile l’accumulo di crediti e ricompense senza però compromettere la longevità del gioco.

Pro delle Novità:

  • Modalità duale competitiva/autentica offre versatilità inedita;
  • Archetipi aggiungono profondità strategica senza complessità eccessive;
  • Digitalizzazione di oltre 20.000 giocatori con qualità impressionante;
  • Stadi e atmosfere significativamente migliorati;
  • Sistema di progressione più accessibile e bilanciato.

Contro delle Novità:

  • Curva di apprendimento aumentata per padroneggiare entrambe le modalità;
  • Alcune funzioni richiedono connessione internet costante;
  • Gestione degli Archetipi può risultare inizialmente confusionaria;
  • Certe personalizzazioni estetiche sono legate a microtransazioni;
  • Bilanciamento ancora in fase di perfezionamento nelle prime settimane.

Gameplay, tra tradizione e innovazione

Il sistema di controllo ha subito una trasformazione radicale, con la suddivisione tra modalità competitiva e realistica che caratterizza “la novità più radicale del nuovo titolo calcistico”. Nella modalità competitiva, ogni movimento risponde con precisione agli input del controller, creando un’esperienza che premia la skill pura e la conoscenza approfondita delle meccaniche di gioco. I passaggi risultano più diretti e i tiri più potenti, mentre i tackle sono più efficaci e immediati. Questo approccio si rivela perfetto per chi affronta sfide online, dove ogni millisecondo può fare la differenza tra vittoria e sconfitta.

La modalità autentica presenta, invece, dinamiche completamente diverse, privilegiando naturalezza e realismo delle azioni. I giocatori si muovono con inerzie più credibili i passaggi seguono traiettorie più naturali e i contrasti avvengono con tempistiche più realistiche. Gli errori tecnici diventano più frequenti, specialmente con calciatori meno abili, creando situazioni di gioco più imprevedibili e avvincenti. Questa modalità si adatta perfettamente alle partite contro la CPU o alle sessioni più rilassate tra amici.

fc 26 recensione

Il sistema di intelligenza artificiale ha ricevuto upgrade significativi, soprattutto nel comportamento dei compagni di squadra senza palla. I movimenti risultano più intelligenti e coordinati con inserimenti che seguono logiche tattiche reali. I portieri mostrano reazioni più credibili, alternando parate spettacolari a errori umani, che rendono ogni azione imprevedibile. L’AI degli avversari si adatta meglio alle strategie del giocatore, modificando approccio tattico durante le partite più lunghe.

La fisica del pallone rappresenta uno dei miglioramenti più evidenti, con traiettorie che tengono conto di fattori ambientali come vento e umidità. I rimbalzi seguono leggi fisiche più realistiche, creando situazioni di gioco meno prevedibili e più spettacolari. Le collisioni tra giocatori sono state raffinate, eliminando gran parte delle situazioni innaturali che caratterizzavano i capitoli precedenti. Sistema che contribuisce a creare un’esperienza più immersiva e coinvolgente.

Le tattiche hanno acquisito maggiore importanza, con moduli che influenzano realmente l’andamento delle partite. I cambi durante il gioco producono effetti più marcati,  permettendo di ribaltare situazioni compromesse con le sostituzioni giuste. Le istruzioni individuali per ogni giocatore offrono controllo granulare sul comportamento della squadra. Meccaniche che richiedono studio e dedizione ma che ripagano con un livello di controllo tattico senza precedenti nella serie.

Pro del gameplay:

  • Doppia modalità di gioco soddisfa esigenze diverse;
  • Intelligenza artificiale significativamente migliorata;
  • Fisica del pallone più realistica e spettacolare;
  • Sistema tattico più profondo e influente;
  • Controlli più precisi e responsivi in entrambe le modalità.

Contro del gameplay:

  • Necessità di apprendere due sistemi di controllo diversi;
  • Alcune situazioni di gioco ancora artificiali;
  • Bilanciamento tra modalità non sempre perfetto;
  • Curva di apprendimento ripida per i nuovi giocatori;
  • Meccaniche tattiche avanzate possono intimidire i casual.

Dimensione artistica (grafica e audio)

La componente visiva di FC 26 rappresenta probabilmente l’aspetto più impressionante dell’intera produzione, raggiungendo livelli di fotorealismo che spesso confondono con le riprese televisive reali. I volti dei calciatori mostrano dettagli incredibili, con espressioni facciali che cambiano dinamicamente durante le partite. Le rughe di concentrazione gli sguardi di determinazione e persino le gocce di sudore contribuiscono a creare un’atmosfera di autentico coinvolgimento. La tecnologia di scansione utilizzata per digitalizzare oltre ventimila atleti professionali ha permesso di catturare, non solo le fattezze fisiche, ma anche le peculiarità gestuali di ogni singolo giocatore.

Gli stadi hanno ricevuto un trattamento di prima classe, con ricostruzioni fedeli che catturano l’essenza architettonica e atmosferica di ogni impianto. I riflessi della luce sui prati – perfettamente curati – cambiano in base all’orario e alle condizioni meteorologiche, mentre le tribune si animano con coreografie e reazioni che seguono l’andamento della partita. L’illuminazione dinamica crea atmosfere diverse per ogni momento della giornata, mentre gli effetti particellari aggiungono realismo alle condizioni climatiche avverse. San Siro, Old Trafford e il Camp Nou non sono mai stati così dettagliati e coinvolgenti.

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Le animazioni rappresentano un salto qualitativo notevole rispetto ai capitoli precedenti, con movenze più fluide e naturali che eliminano gran parte delle rigidità artificiali del passato. Ogni giocatore mantiene il proprio stile di corsa e le proprie caratteristiche gestuali, rendendo immediato il riconoscimento anche senza guardare il nome sulla maglia. Le celebrazioni sono state ampliate e diversificate, permettendo espressioni più autentiche della personalità di ciascun atleta. I rallenty mostrano dettagli incredibili, trasformando ogni gol in uno spettacolo cinematografico.

Il comparto sonoro non è da meno, con un audio design che immerge completamente il giocatore nell’atmosfera calcistica. I cori dei tifosi cambiano dinamicamente in base all’andamento della partita, creando momenti di tensione palpabile o di euforia contagiosa. I commenti tecnici sono stati ampliati e diversificati, evitando le ripetizioni che caratterizzavano i titoli precedenti. Ogni stadio mantiene le proprie caratteristiche acustiche uniche, mentre i suoni ambientali contribuiscono a definire l’identità di ogni impianto. Il rombo della folla a San Siro non somiglia in alcun modo al tifo composto di Wembley, creando esperienze audiovisive distinte e memorabili.

Pro della dimensione artistica:

  • Fotorealismo impressionante nei volti e nelle espressioni;
  • Stadi ricostruiti con dettaglio maniacale e atmosfere autentiche;
  • Animazioni fluide che catturano lo stile individuale dei giocatori;
  • Audio design immersivo con cori dinamici e commenti variati;
  • Colonna sonora di qualità che si integra perfettamente con il gameplay.

Contro della dimensione artistica:

  • Alcuni dettagli minori risultano ancora artificiali;
  • Spazio occupato su disco significativamente aumentato;
  • Qualche imperfezione negli effetti atmosferici durante le condizioni estreme.

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L’evoluzione di una dinastia videoludica

La serie FC ha intrapreso un percorso di rinnovamento coraggioso dopo la separazione dal marchio FIFA, mostrando una maturità progettuale che va oltre la semplice evoluzione annuale. Confrontando FC 26 con il suo predecessore immediato, le differenze risultano sostanziali e tangibili in ogni aspetto del gioco. FC 25 aveva già gettato basi solide per il nuovo corso ma soffriva ancora di alcune incertezze dovute alla transizione dal brand FIFA. Il nuovo capitolo consolida queste fondamenta,, costruendo un’identità più definita e coerente.

Il gameplay rappresenta l’area dove i progressi risultano più evidenti. Mentre FC 25 proponeva meccaniche ancora troppo legate al passato il nuovo capitolo introduce il sistema duale competitivo/autentico, che rivoluziona completamente l’approccio al calcio digitale. La risposta ai controlli è diventata più immediata e precisa, eliminando quella sensazione di “input lag” che occasionalmente affliggeva il predecessore. L’intelligenza artificiale ha compiuto passi da gigante, presentando comportamenti più credibili e realistici sia per i compagni che per gli avversari.

fc 26 recensione

Ultimate Team ha subito una trasformazione radicale rispetto a FC 25, introducendo gli Archetipi che aggiungono una dimensione strategica completamente nuova. Il sistema di carte è stato riorganizzato, creando dinamiche collezionistiche più interessanti e bilanciate. Le ricompense sono diventate più accessibili, riducendo quella sensazione di “pay to win” che caratterizzava negativamente alcuni aspetti del titolo precedente. Le competizioni online sono state ristrutturate, offrendo tornei più frequenti e premi più equi per tutti i livelli di abilità.

La carriera allenatore ha ricevuto l’attenzione che meritava dopo anni di sostanziale abbandono. Le storyline dinamiche introdotte in FC 26 creano narrazioni coinvolgenti che si adattano alle performance del giocatore. Il mercato trasferimenti è diventato più realistico, con trattative che tengono conto di fattori economici e relazionali più complessi. La gestione della squadra offre controllo granulare su ogni aspetto dell’esperienza manageriale, trasformando questa modalità in un vero simulatore calcistico.

Guardando all’intera evoluzione della serie negli ultimi cinque anni emerge chiaramente come EA Sports abbia saputo reinventarsi dopo la perdita del brand FIFA. La transizione verso FC ha rappresentato un’opportunità per sperimentare e innovare, creando un prodotto che mantiene le radici nella tradizione calcistica videoludica ma abbraccia coraggiosamente il futuro. Gli investimenti in tecnologia e sviluppo hanno prodotto risultati tangibili che si riflettono in ogni aspetto del gioco.

Dying Light: The Beast, la recensione su PS5

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Dying Light: The Beast irrompe sulla scena videoludica, come un’esplosione di caos e zombie in un bosco incantato e terrificante. Questo titolo standalone espande l’universo della serie con un focus su Kyle Crane, il protagonista originale trasformato in una bestia rabbiosa dopo anni di esperimenti crudeli. Ambientato in Castor Woods una riserva naturale Svizzera – invasa dal virus THV – il gioco mescola survival horror, parkour mozzafiato e combattimenti viscerali. Techland ha confezionato un’avventura da circa 20 ore, che riavvolge l’esperienza ai fasti del primo Dying Light, al netto di alcuni twist mostruosi che lo rendono fresco e feroce.

I punti di forza balzano subito all’occhio. Il gameplay cattura l’essenza del parkour fluido e del melee “brutale”, elevandoli a livelli superiori con meccaniche come la Beast Mode che trasforma Crane in un turbine di furia invincibile. La storia regala momenti epici, specialmente verso le battute conclusive e il mondo aperto di Castor Woods pulsa di vita, con la presenza di side quest che non sembrano mai riempitive. L’atmosfera horror notturna è la più spaventosa della serie, con inseguimenti ansiolitici e, il più delle volte, mortali.

Le debolezze invece si annidano nella narrazione che a volte scivola in cliché da film B-horror, con dialoghi tavolta esagerati e un villain (il Barone) che non sembra essere sempre all’altezza del suo ruolo. L’inizio può risultare un po’ lento (in fase di sincronia con il ritmo dell’avventura) e certi elementi – come il grappling hook – richiedono prima un po’ di pratica. Nonostante queste incertezze, The Beast si conferma come un ritorno alle origini vincente per la saga, rendendolo un must per i fan e un’ottima porta d’ingresso per gli scopritori della serie.

Storia e Personaggi

La trama di Dying Light: The Beast riprende le fila dal DLC The Following del primo capitolo, saltando avanti di 13 anni. Kyle Crane non è più l’agente GRE infiltrato ad Harran, ma un esperimento fallito intrappolato in un laboratorio alpino. Soggetto a torture da parte di Marius Fischer – noto come il Barone, un magnate ossessionato dal controllo del virus THV – Crane emerge come un ibrido umano-zombie assetato di vendetta. La missione centrale ruota attorno alla caccia di otto Chimere creature mutanti nate dagli esperimenti del Barone per estrarne il DNA GSB, che potenzia le abilità “bestiali” di Crane. Aiutato da Olivia, una scienziata ribelle che lo libera dal carcere, il viaggio si snoda attraverso Castor Woods, un’ex riserva naturale divenuta ora un labirinto di foreste nebbiose, villaggi abbandonati e rovine industriali.

I personaggi aggiungono strati a questa epopea di sopravvivenza. Crane, interpretato da Roger Craig Smith, brilla con un carisma rabbioso che mescola umorismo nero e vulnerabilità. Le sue interazioni con i sopravvissuti sparsi nel bosco rivelano storie personali strazianti – come quella di un ex cacciatore che ha visto la sua famiglia distrutta per colpa del virus o una comunità isolata che combatte per mantenere viva la speranza. Olivia funge da guida morale, con una backstory legata agli esperimenti del Barone che si svela piano piano attraverso dialoghi e nastri audio. Il Barone, invece, è il classico antagonista megalomane (con dei monologhi carichi di follia), ma la sua presenza aleggia costante attraverso ologrammi e registri di laboratorio, rendendolo un’ombra opprimente (ma non troppo).

dying light the beat recensione

La narrazione privilegia cutscene in terza persona, che mostrano Crane in azione enfatizzando la sua trasformazione. Non ci sono scelte morali complesse come in Dying Light 2 ma le diverse risposte fornite ai vari NPC influenzano leggermente le side quest. Il ritmo accelera dopo le prime ore, culminando in un finale epico che chiude alcune questioni rimaste in sospeso nella serie.

Queste dinamiche narrative rendono The Beast un capitolo che, non solo intrattiene, ma fa sentire il peso del mondo post-apocalittico. Crane, non è un eroe invincibile, ma un uomo “spezzato” che combatte per reclamare la sua umanità, un tema che riecheggia nei giochi dall’animo survival (come The Last of Us), dove i mostri esterni altro non sono che parte di un riflesso interiore. I personaggi secondari non sono semplici comparse ma catalizzatori per esplorare la resilienza umana in un paesaggio desolato. Attraverso nastri audio e diari sparsi, i giocatori scoprono la storia di Castor Woods da riserva idilliaca a inferno virale, con dettagli – come gli esperimenti segreti sugli animali – che aggiungono un velo di orrore etico e non troppo distante dalla realtà fuori dallo schermo. La vendetta di Crane non è solo fisica ma un viaggio interiore che culmina in scelte che definiscono il suo destino finale. Questo approccio rende la storia accessibile ai veterani della serie che apprezzano i richiami al lore originale, mentre i neofiti possono godersela senza prerequisiti eccessivi.

Pro di Storia e Personaggi:

  • Kyle Crane emerge come il personaggio più memorabile della serie, con un arco narrativo che evolve da vittima a vendicatore;
  • I sopravvissuti offrono backstory toccanti che arricchiscono il mondo senza appesantire la trama principale;
  • Il finale regala un climax mozzafiato che ripaga l’investimento emotivo;
  • Dialoghi frizzanti, con tocchi di umorismo nero che alleggeriscono i momenti tesi.

Contro di Storia e Personaggi:

  • Il Barone rischia di cadere nel cliché del villain da fumetto con motivazioni prevedibili;
  • Alcune side quest si risolvono in modo troppo lineare senza twist sorprendenti;
  • Olivia appare un po’ troppo come deus ex machina nelle prime fasi della storia;
  • La trasformazione di Crane in ibrido zombie si spiega con dialoghi espositivi che interrompono il flusso.

Gameplay

Il gameplay di Dying Light: The Beast è un turbine di adrenalina che fonde combattimento parkour e survival in un loop irresistibile. Al centro c’è il movimento fluido che permette a Crane di scalare alberi, saltare su tetti di capanne e planare tra rami con una grazia felina. Il giorno trasforma Castor Woods in un parco giochi verticale, dove il rampino lancia il giocatore attraverso voragini (anche se richiede tempismo preciso per non finire in un cespuglio di rovi). La notte, invece, ribalta tutto in un incubo stealth con i Volatili che fiutano il sudore e caricano come proiettili viventi. Qui l’istinto di sopravvivenza evidenzia pericoli e loot, forzando scelte tattiche come nascondersi in armadi, sprintare verso torce UV per salvarsi, scoprendo che il silenzio e il miglior modo per sopravvivere.

Il melee combat ha sempre il suo fascino irresistibile, con armi come mazze da baseball machete e tubi arrugginiti che si degradano dopo colpi ripetuti, richiedendo riparazioni con le poche risorse scarse a disposizione (è sempre un survival, non dimentichiamolo). Ogni impatto trasmette un “crudo realismo”, con schizzi di sangue e arti mozzati che dipingono dei momenti di macabra soddisfazione. Le mod elementali aggiungono quel pizzico di varietà, come il fuoco che incenerisce le orde di zombie o l’elettricità che li stordisce prima di una fisiologica e scontata conclusione. Non mancano all’appello le armi da fuoco, ma per via del munizionamento rarissimo rivestono il ruolo di “utlima spiaggia”. Veicoli come jeep e moto aiutano a spostarsi velocemente tra le varie zone della mappa, ricordandosi che i nostri “amati” zombie possono aggrapparsi ai parafanghi.

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La Beast Mode è la ciliegina sulla torta, che si alimenta prendendo danni e si scatena con Crane in modalità furia, con salti sovrumani e artigli che squarciano orde. Potenziata dal GSB, estratto dalle Chimere, sblocca abilità devastanti – come lanci di oggetti pesanti o rigenerazione accelerata – rendendo le boss fight epiche. Il crafting è intuitivo, con dei banchi di lavoro, presenti nelle varie safehouse, dove realizzare i vari progetti trovati nei vari angoli di Castor Woods e creare così gadget micidiali utili in ogni situazione (come molotov o trappole). Le quest principali intrecciano esplorazione e azione mentre le secondarie offrono punti esperienza e loot.

Il bilanciamento evita l’eccessiva vulnerabilità: stamina limitata rende ogni scontro una “partita a scacchi” e il level cap a 15 spinge a scelte oculate nella crescita nell’albero delle abilità, che si suddivide tra agilità o forza. Non ci sono microtransazioni o live service, solo un mondo reattivo dove il ciclo giorno-notte altera, non solo la difficoltà, ma anche le opportunità come loot extra nelle fasi notturne. È un gameplay che evolve il concetto di rischio-ricompensa tipico dei survival horror, spingendo i giocatori a danzare sul filo del rasoio e non giocare troppo in difesa.

Questi elementi si intrecciano in un flusso che ci tiene incollati allo schermo. Immaginate di scalare un mulino a vento al tramonto per avvistare un convogliom per poi passare alla notte dove un Volatile vi insegue tra le foglie fruscianti. Rispetto ad altri titoli open world come Far Cry il gioco evita la l’effetto “dispersione”, concentrandosi sulla densità, con ogni area che nasconde segreti (come bunker nascosti o echi di esperimenti passati). La progressione è gratificante: da Crane debole e zoppicante a bestia dominante ma non invincibile, con il rischio di una morte improvvisa smpre dietro l’angolo. È un gameplay che premia i curiosi e gli amanti della strategia, con una Castor Woods piena di cose da fare e scoprire.

Pro di Gameplay:

  • Parkour e traversal fluidi che fanno sentire Crane come un acrobata mostruoso;
  • Combattimento melee soddisfacente e vario, con feedback viscerale ad ogni colpo;
  • Beast Mode che aggiunge un layer di power fantasy, controllato e adrenalinico;
  • Ciclo giorno-notte che crea due esperienze distinte, con tensione notturna da brividi;
  • Side quest integrate che espandono il mondo senza annoiare.

Contro di Gameplay:

  • Grappling hook frustrante nelle prime ore per mancanza di tutorial chiari;
  • Armi da fuoco sotto-utilizzate a causa dell’ammo scarso;
  • Incontri con umani occasionali che rompono il ritmo horror;
  • Veicoli divertenti ma goffi in spazi stretti (come le fitte foreste).

Dimensione artistica (Grafica e Sonoro)

La dimensione visiva di Dying Light: The Beast dipinge Castor Woods come un quadro post-apocalittico mozzafiato. Alberi svizzeri maestosi che si stagliano contro tramonti arancioni,  mentre la nebbia notturna avvolge capanne di legno con un fotorealismo che cattura la bellezza crudele della natura reclamata dagli zombie. Dettagli come foglie che frusciano al vento o sangue che gocciola da ferite fresche elevano l’immersione, con il dettaglio delle texture e l’illuminazione dinamica che trasformano il giorno in un invito all’esplorazione e la notte in un incubo claustrofobico. La photo mode permette di raccogliere una testimonianza di quanto appena narrato, anche se le opzioni offerte (in termini fotografici) non sono all’altezza di alcune best practice di successo.

Sul fronte sonoro la colonna sonora reinventata da Olivier Derivere vira verso un horror moderno, con synth pulsanti e percussioni tribali che ci hanno ricordato il film 28 Giorni Dopo. Brani lenti e ansiogeni accompagnano le passeggiate solitarie, mentre picchi elettronici esplodono durante le Beast Mode. Il voice acting spicca, con Roger Craig Smith che infonde a Crane un timbro vocale che enfatizza il bifrontismo del personaggio, mentre i gemiti degli zombie e i ringhi delle Chimere creano un’audio design immersivo. Effetti come passi su ghiaia o il crack di ossa spezzate rinforzano il feedback tattile su PS5, rendendo ogni incontro “vissuto”.

dying light the beat recensione

La summa di questi elementi artistici crea un’atmosfera che va oltre il visivo e uditivo, intrecciando emozioni crude. Castor Woods non è solo uno sfondo ma un personaggio vivo, con rovine che raccontano storie silenziose come graffiti di sopravvissuti o carcasse di veicoli arrugginiti. Il gore è stilizzato non gratuitoa con interiora che scintillano al sole o occhi che schizzano via enfatizzando l’orrore corporale senza scadere nel trash. Rispetto a giochi come Resident Evil il design privilegia l’open world organico con variazioni stagionali sottili che influenzano il gameplay come neve che rallenta i nemici.

Questa rinnovata dimensione artistica eleva Dying Light: The Beast da semplice action a esperienza sensoriale. La palette cromatica spazia da verdi lussureggianti diurni a blu freddi notturni, creando un palpabile contrasto emotivo mentre il suono spaziale crea una costante di ansia, con la sensazione di un nemico onnipresente. In un’era di grafiche next-gen, il gioco corre liscio su console in 60fps, con dettagli grafici che non si perdono troppo per strada. Sotto il profilo tecnico, il lavoro svolto in termini di ottimizzazione è pregevole.

Pro di Dimensione artistica:

  • Grafica fotorealistica che rende Castor Woods un mondo vivo e dettagliato;
  • Contesto audio dinamico, che si adatta al ciclo giorno-notte;
  • Voice acting stellare, specialmente per Crane e i mostri;
  • Effetti ambientali immersivi che amplificano l’atmosfera horror.

Contro di dimensione artistica:

  • Qualche pop-in di texture nelle aree dense di vegetazione;
  • Audio dei veicoli piatto e ripetitivo;
  • Photo mode molto limitatA in opzioni di editing rispetto alla concorrenza;
  • Gore talvolta eccessivo nelle cutscene, al punto da risultare disturbante.

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Valutazione sull’evoluzione della serie dei giochi nel corso degli Anni

La serie Dying Light ha percorso un cammino tortuoso da quando Techland lanciò il primo capitolo nel 2015. Lanciato sul mercato come un open world a tema zombie, il titolo presentava un componente parkour rivoluzionaria e la presenza di un ciclo giorno-notte che non forniva mai dei punti di riferimento fissi. Il DLC The Following (2016) espanse il primo capitolo introducendo veicoli e passando ad un’ambientazione rurale, ma convinse troppo complice la presenza di mappe poco stratificate, focus sulle armi da fuoco opinabile e quel senso di ansia e paura vacillante. Dying Light 2 (2022) promise rivoluzioni, con scelte narrative ramificate e una mappa di gioco molto ampia, ma inciampò su un contesto narrativo debole e personaggi poco carismatici.

The Beast mette a segno un punto alla voce “Nostalgia”, con un ritorno alle origini con Kyle Crane e un approccio “contenuto”, che rifinisce invece di espandere. L’evoluzione si vede nel parkour snellito, la storia guadagna profondità con un protagonista carismatico, mentre l’horror notturno si affina con IA nemica più astuta e inseguimenti imprevedibili. Techland ha imparato dai propri errori: niente promesse iperboliche, solo quello che sa fare meglio.

Borderlands 4, la recensione su Xbox Series X

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L’universo videoludico è un cosmo in perenne espansione, un luogo dove le certezze sono poche e le rivoluzioni all’ordine del giorno. Eppure in questo turbinio di pixel e poligoni esistono delle costanti dei fari luminosi che da anni guidano le flotte di appassionati. Borderlands è, senza ombra di dubbio, uno tra questi. Un franchise che ha preso il concetto di sparatutto in prima persona e lo ha fuso con le meccaniche da gioco di ruolo, creando una formula esplosiva che ha ri-definito il concetto di looter-shooter. Dopo anni di attesa – e un terzo capitolo che ha diviso la critica e il pubblico – Gearbox Software torna alla carica con Borderlands 4, un titolo che si presenta con l’arduo compito di innovare senza stravolgere.

Il risultato è un’opera colossale, un’avventura che trabocca di contenuti, armi e carisma ma che allo stesso tempo mostra il fianco a qualche incertezza figlia di un passato glorioso ma ingombrante. Questa nuova epopea abbandona le sabbie riarse di Pandora per portarci sul pianeta Kairos, un mondo inedito oppresso dal giogo di un nuovo e carismatico antagonista il Crono-Custode. Al centro della scena troviamo quattro nuovi Cacciatori della Cripta pronti a tutto pur di liberare il pianeta e ovviamente arricchirsi. Borderlands 4 è un gioco di contrasti, un’esperienza che riesce a essere al tempo stesso familiare e sorprendentemente fresca. Il gunplay raggiunge vette di eccellenza mai toccate prima nella serie, grazie a un sistema di movimento incredibilmente fluido e a un arsenale sterminato che non smette mai di stupire.

La scrittura, d’altro canto, tenta la via della maturità, smorzando i toni eccessivamente sopra le righe del predecessore e riuscendo solo in parte nel suo intento. Il gioco brilla per la sua direzione artistica, con un cel-shading iconico ora più vibrante e dettagliato che mai. È un capitolo che vuole essere il punto di sintesi della saga, un’evoluzione che prende il meglio dai suoi predecessori ma limandone i difetti. Un’impresa titanica che riesce a metà, consegnandoci un gioco immenso divertente (e quasi infinito) ma che a tratti dà la sensazione di non volare osare “troppo”.

Storia e personaggi: un racconto di liberazione e follia temporale

La saga di Borderlands ha sempre puntato forte sulla sua narrativa scanzonata e sui suoi personaggi sopra le righe. Borderlands 4 non fa eccezione ma cerca di aggiustare il tiro rispetto all’umorismo a tratti forzato e memetico di Borderlands 3. L’avventura si svolge su Kairos, un pianeta mai visto prima tenuto sotto il tallone di ferro del Crono-Custode e della sua legione l’Ordine. Questo nuovo antagonista si discosta dal classico cattivo machiavellico alla Handsome Jack. Il Custode del Tempo è un tiranno enigmatico, un dittatore che controlla il flusso del tempo stesso presentandosi come un’entità quasi divina per i popoli oppressi di Kairos.

La sua influenza pervade ogni angolo del pianeta, una minaccia costante e tangibile che dona alla narrazione un’atmosfera più cupa e matura rispetto al passato. La trama principale ruota attorno alla liberazione di Kairos. I quattro nuovi Cacciatori della Cripta arrivano sul pianeta attirati dalle solite promesse di tesori e Cripte leggendarie ma si trovano ben presto invischiati in una vera e propria rivoluzione. Il loro compito sarà quello di unire le varie fazioni tribali del pianeta convincerle a combattere e guidarle contro le forze soverchianti dell’Ordine.

borderlands 4 recensione

Il ritmo della campagna è ben gestito, alternando missioni ad alto tasso di adrenalina a momenti più riflessivi in cui si approfondisce la lore di Kairos, un mondo che si rivela sorprendentemente complesso e stratificato. La scrittura fa un piccolo passo avanti. I dialoghi sono meno farciti di battute “forzate” e i personaggi secondari sono più sfaccettati e meno caricaturali. Ritornano anche alcune vecchie conoscenze, figure iconiche della saga che appaiono in ruoli di supporto donando un senso di continuità all’universo narrativo. Il vero cuore pulsante del gioco però sono i quattro nuovi protagonisti. Gli sviluppatori hanno svolto un lavoro eccellente nel creare un quartetto di eroi carismatico e diversificato. Ve li presentiamo, in sintesi:

  • Vex la Sirena: Una studiosa ossessionata dalle Cripte e dalla storia degli Eridiani. A differenza delle altre Sirene i suoi poteri non sono puramente offensivi ma le permettono di manipolare l’ambiente e creare anomalie spaziali. È la mente del gruppo un personaggio riflessivo ma capace di scatenare una furia devastante quando la situazione lo richiede;
  • Rafa l’Eso-Soldato: Un mercenario dal cuore d’oro, equipaggiato con un’armatura tecnologica avanzatissima. La sua specialità è il combattimento in prima linea, potendo schierare droni da combattimento e scudi energetici. Rafa rappresenta la forza bruta del team ma nasconde un passato travagliato e un forte senso di giustizia;
  • Amon il Cavaliere della Forgia: Un guerriero proveniente da una tribù nomade di Kairos. È un personaggio imponente, capace di evocare armi spettrali e di infondere i suoi attacchi con il potere elementale del pianeta. La sua storia personale è profondamente legata alla lotta di liberazione di Kairos rendendolo il fulcro emotivo della narrazione.
  • Harlowe la Gravitar: Una ladra agile e scattante i cui poteri le permettono di manipolare la gravità. Può sollevare i nemici in aria, creare piccoli buchi neri e muoversi sul campo di battaglia con una velocità disarmante. È la scheggia impazzita del gruppo, sempre pronta alla battuta e a cacciarsi nei guai.

L’interazione tra questi quattro personaggi è uno dei punti di forza del gioco. I loro dialoghi durante le missioni, le loro reazioni agli eventi e le loro storie personali si intrecciano in modo naturale creando un forte senso di cameratismo. La trama, seppur più solida e coerente rispetto al passato, non è esente da difetti. In alcuni frangenti la narrazione perde mordente affidandosi a cliché già visti nel genere. Il Crono-Custode, per quanto accattivante, non riesce a raggiungere il carisma iconico di Handsome Jack, rimanendo una figura un po’ troppo distante e misteriosa per tutto l’arco della storia. Nonostante queste piccole sbavature, il comparto narrativo di Borderlands 4 compie un deciso passo nella giusta direzione offrendo una storia godibile personaggi memorabili e un nuovo affascinante angolo dell’universo da esplorare.

Pro di storia e personaggi:

  • Un antagonista intrigante e un’ambientazione inedita;
  • I quattro nuovi Cacciatori sono eccezionali per design e caratterizzazione;
  • Tono narrativo più maturo e meno caotico;
  • Ottima gestione del ritmo della campagna principale.

Contro di storia e personaggi:

  • Il cattivo principale manca del carisma di Handsome Jack;
  • Alcuni snodi narrativi sono prevedibili;
  • Le missioni secondarie a volte mancano di mordente narrativo;
  • Il ritorno di alcuni vecchi personaggi sembra un po’ forzato.

Gameplay: la sinfonia della distruzione raggiunge la perfezione

Se c’è un aspetto in cui Borderlands 4 eccelle senza riserve è il gameplay. Gearbox Software ha preso la solida base del terzo capitolo e l’ha elevata a un livello superiore, creando il looter-shooter “per eccellenza”. Il feeling delle armi è semplicemente sublime. Ogni proiettile ha un peso, ogni esplosione è una gioia per gli occhi e le orecchie. Il sistema di generazione procedurale delle armi torna più in forma che mai, sfornando un numero letteralmente infinito di strumenti di morte. Si passa da pistole che sparano proiettili a ricerca a fucili a pompa che generano mini-singolarità gravitazionali, fino a lanciarazzi che suonano un’aria d’opera prima di scatenare l’inferno.

La varietà è sbalorditiva e la ricerca del “god roll” perfetto costringe il giocatore di turno a continuare a combattere e ad esplorare per ore e ore. La vera rivoluzione di questo quarto capitolo risiede però nel sistema di movimento. I Cacciatori della Cripta sono ora più agili che mai. Possono eseguire doppi salti, scivolate, scatti aerei e aggrapparsi alle sporgenze grazie a un rampino. Queste nuove abilità trasformano ogni scontro a fuoco in una danza mortale. Non si è più vincolati a un combattimento statico da dietro le coperture, ora è possibile attaccare dall’alto aggirare i nemici con una velocità fulminea e riposizionarsi costantemente sul campo di battaglia. Questa nuova libertà di movimento si sposa alla perfezione con il level design delle arene più verticali e complesse che in passato.

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Gli alberi delle abilità dei quattro protagonisti sono un altro fiore all’occhiello della produzione. Ognuno dei quattro Cacciatori ha a disposizione tre diversi rami di specializzazione, ognuno con una propria abilità d’azione unica e una serie di potenziamenti passivi. La profondità di personalizzazione è notevole, permettendo di creare build estremamente diverse e sinergiche. Vex può specializzarsi nel controllo del campo di battaglia bloccando i nemici con le sue anomalie oppure concentrarsi sui danni elementali. Rafa può diventare un tank inarrestabile o un comandante che guida un esercito di droni.

Le possibilità sono enormi e incentivano la rigiocabilità e la sperimentazione. Borderlands 4 introduce anche nuovi tipi di nemici e nuove fazioni che popolano il pianeta Kairos. L’Ordine del Crono-Custode schiera soldati corazzati e mech pesantemente armati mentre le lande selvagge sono abitate da creature aliene aggressive e imprevedibili. L’intelligenza artificiale nemica è stata migliorata, rendendo gli scontri più impegnativi e tattici. I nemici cercano di aggirare il giocatore, usano le coperture in modo intelligente e coordinano i loro attacchi.

L’esplorazione del mondo di gioco è un altro elemento chiave dell’esperienza. Kairos è un pianeta vasto e variegato composto da diverse macro-aree che vanno da lussureggianti giungle aliene a deserti aridi, passando per città futuristiche e antiche rovine. Per spostarsi rapidamente si può contare su un nuovo hover-bike completamente personalizzabile, un veicolo agile e divertente da guidare. Il mondo è disseminato di segreti sfide secondarie e boss opzionali che ricompensano generosamente i giocatori più curiosi. L’endgame di Borderlands 4 è stato pensato per tenere incollati i giocatori per centinaia di ore. Una volta terminata la campagna principale si sblocca la modalità “Caos”, che permette di aumentare la difficoltà del gioco e la qualità del bottino ottenuto.

Tornano anche le arene di combattimento e le incursioni raid impegnativi pensati per essere affrontati in cooperativa con altri tre giocatori. Gearbox ha già annunciato un corposo piano di supporto post-lancio, con espansioni della storia, nuovi personaggi ed eventi stagionali. Se c’è da muovere una critica al gameplay è la sua fisiologica ripetitività nel suo ciclo di vita. Alla fine della giornata, le cose da fare si dimostrano sempre le stesse: spara, saccheggia, migliora l’equipaggiamento e ripeti. Per chi non è avvezzo al genere, questa formula potrebbe risultare stancante sul lungo periodo.

Pro del gameplay:

  • Sistema di movimento incredibilmente fluido e divertente;
  • Feeling delle armi eccezionale e varietà dell’arsenale sbalorditiva;
  • Alberi delle abilità profondi e altamente personalizzabili;
  • Un endgame ricco di contenuti e un solido piano di supporto post-lancio.

Contro del gameplay:

  • La formula di gioco alla lunga può risultare ripetitiva;
  • Il bilanciamento di alcune armi leggendarie non è perfetto;
  • La gestione dell’inventario poteva essere migliorata;
  • Alcune tipologie di missioni tendono a ripetersi troppo spesso.

Dimensione artistica: un capolavoro in cel-shading che risuona di caos

Lo stile grafico di Borderlands è sempre stato il suo marchio di fabbrica inconfondibile. Quel cel-shading spesso definito “concept art in movimento” ha permesso alla serie di distinguersi dalla massa di sparatutto realistici e di mantenere una freschezza visiva invidiabile anche a distanza di anni. Borderlands 4 non solo conferma questa tradizione ma la eleva a un nuovo livello di eccellenza. Grazie alla potenza delle console di nuova generazione il mondo di Kairos prende vita, con una ricchezza di dettagli e una vivacità cromatica mai viste prima.

I modelli poligonali dei personaggi e dei nemici sono più complessi e animati con una cura maniacale. Gli effetti particellari delle esplosioni e delle abilità speciali sono un vero spettacolo pirotecnico, un tripudio di colori che riempie lo schermo in ogni scontro a fuoco. L’illuminazione gioca un ruolo fondamentale nel creare l’atmosfera. I raggi di sole che filtrano attraverso le fitte giungle aliene, i neon che si riflettono sulle pozzanghere delle città cyberpunk e le luci spettrali delle rovine Eridiane contribuiscono a rendere ogni ambientazione unica e memorabile.

La direzione artistica brilla soprattutto nella creazione del pianeta Kairos. Abbandonare Pandora è stata una scommessa che ha dato ragione agli sviluppatori. Il nuovo mondo offre una varietà di biomi che spezza la monotonia dei deserti che avevano caratterizzato i primi capitoli. Si passa da canyon rocciosi a paludi luminescenti, da picchi innevati a complessi industriali iper-tecnologici. Ogni area ha una sua identità visiva ben precisa, una sua flora e fauna uniche. Il design dei nemici e delle armi è come sempre folle e ispiratissimo. Le creature di Kairos sono un mix di design organico e biomeccanico mentre le armi prodotte dalle varie corporazioni sono un tripudio di creatività. Le armi Maliwan sono eleganti e futuristiche, quelle Tediore si trasformano in torrette semoventi una volta ricaricate mentre le Jakobs mantengono il loro fascino da vecchio west.

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Il comparto sonoro è altrettanto impressionante. Il doppiaggio in italiano si attesta su livelli di eccellenza, con interpretazioni convincenti che riescono a rendere giustizia all’umorismo e al dramma della narrazione. Gli effetti sonori delle armi sono stati curati in modo maniacale. Ogni arma ha un suo suono distintivo, con un feedback uditivo che ne restituisce la potenza e la peculiarità. Le esplosioni sono fragorose, i proiettili sibilano nell’aria e i versi delle creature aliene sono genuinamente inquietanti. La colonna sonora è un mix esplosivo di generi, che spazia dalla musica elettronica al rock industriale passando per sonorità più riflessive.

Le tracce che accompagnano i combattimenti sono cariche di adrenalina e si adattano dinamicamente all’azione su schermo, aumentando di intensità nei momenti più concitati. Nonostante l’indiscutibile qualità artistica Borderlands 4 non è esente da problemi tecnici. Su console il gioco offre diverse modalità grafiche ma anche in modalità “performance” si registrano sporadici cali di fluidità nelle situazioni più caotiche. Gearbox ha già rilasciato diverse patch correttive che hanno migliorato la situazione ma il lavoro di pulizia non è ancora del tutto completato.

Pro della Dimensione artistica:

  • Stile grafico in cel-shading iconico e tecnicamente impressionante;
  • Direzione artistica ispirata sia nel design del mondo che dei personaggi;
  • Comparto sonoro di altissimo livello doppiaggio effetti e colonna sonora;
  • Varietà e bellezza delle ambientazioni del pianeta Kairos.

Contro della Dimensione artistica:

  • Ottimizzazione tecnica non perfetta al lancio;
  • Sporadici cali di frame rate;
  • Qualche bug e glitch minore ancora presente;
  • I menu e l’interfaccia utente potevano essere più puliti e reattivi.

NBA 2K26, la recensione su Xbox Series X

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Ogni anno la storia si ripete. Arriva settembre e con lui un nuovo capitolo di NBA 2K. Un appuntamento fisso per milioni di appassionati. Un rito che scandisce la fine dell’estate e l’inizio della nuova stagione del basket più spettacolare del mondo. NBA 2K26 non fa eccezione. L’ultima creatura di Visual Concepts arriva su console e PC con un obiettivo ambizioso. Non vuole solo essere un aggiornamento: vuole rappresentare la versione più rifinita e completa della simulazione cestistica. La serie 2K, che da anni domina incontrastata il mercato, ha raggiunto vette di realismo e profondità quasi ineguagliabili (anche perchè la concorrenza latita ad arrivare). Migliorare una formula così consolidata è una sfida enorme, con il rischio di adagiarsi sugli allori sempre dietro l’angolo.

Così come quello di scontentare una community esigente e attenta a ogni singolo dettaglio. NBA 2K26 si presenta ai nastri di partenza con questo pesante fardello. Il gioco cerca di spingere l’asticella ancora più in alto e lo fa partendo dalle solide fondamenta del suo predecessore. NBA 2K25 aveva introdotto elementi importanti, perfezionando il gameplay in tante piccole cose. Il nuovo capitolo raccoglie questa eredità e prova a espanderla, promettendo un’esperienza sul parquet più fluida, realistica ed appagante.

Il basket virtuale di 2K è da tempo un universo vastissimo, un contenitore traboccante di opzioni, modalità e contenuti. C’è la Carriera per chi sogna di diventare una leggenda NBA,  MyTeam per i collezionisti di carte e per gli amanti delle sfide online, MyNBA per chi vuole vestire i panni del 6 e gestire una franchigia in ogni suo aspetto. Una ricchezza che a volte rischia di diventare dispersiva. Un labirinto in cui è facile perdersi, specialmente per i nuovi giocatori (ma è anche il più grande pregio della produzione, un aspetto che va riconosciuto).

NBA 2K26, non solo prosegue su questa strada, accelera addirittura. Aggiunge nuovi elementi,  raffina quelli esistenti e cerca di limare le imperfezioni storiche della serie. Ma la domanda che tutti si pongono è sempre la stessa: sarà riuscito a trovare il giusto equilibrio? Avrà risolto i problemi che da anni affliggono l’esperienza di gioco? Sul banco degli imputati sale sempre l’annoso problema legato alle microtransazioni, un’ombra che si allunga minacciosa su ogni modalità. Una presenza costante che rischia di rovinare l’atmosfera e trasformare il divertimento in un esperienza legata al male del pay-to-win. Per capire se il re del basket virtuale ha ancora la corona ben salda sulla testa, oppure se il suo trono è rischio per via delle sue storiche contraddizioni, non ci resta che fare incetta di canestri, al ritmo della nostra recensione di NBA 2K26.

Tutte le novità di questa nuova stagione

NBA 2K26 non è una rivoluzione ma una vera e propria evoluzione, un passo avanti deciso e consapevole rispetto al suo predecessore. Gli sviluppatori di Visual Concepts si sono concentrati sul perfezionamento di meccaniche esistenti, ascoltando con attenzione il feedback della community, che ricordiamo essere tra le più “calorose” del mondo del gaming. Il risultato è un gioco che, a un primo sguardo, potrebbe sembrare molto simile a NBA 2K25, il che non è cosa impossibile con dei titoli di matrice seriale a cadenza annuale. Rimbalzo dopo rimbalzo, pad alla mano si rivela, al netto di una giusta e doverosa pazienza, carico di una serie di miglioramenti importanti e graditi. La novità più significativa è probabilmente legata al ProPLAY. Questa tecnologia, che traduce i filmati reali delle partite NBA in animazioni di gioco, era stata introdotta lo scorso anno, seppur con una sorta di lancio sperimentale. In NBA 2K26, anche forte del feedback ricevuto lo scorso anno, assistiamo ad una maturità importante. Il numero di animazioni è aumentato considerevole, la fluidità con cui i giocatori si muovono sul campo è impressionante. Ogni movimento ogni tiro ogni palleggio appare più naturale e realistico e questo si traduce in un controllo maggiore e in una sensazione di autenticità senza precedenti.

Anche il MyPLAYER Builder – il sistema di creazione del proprio alter ego virtuale – è stato rivisto. L’introduzione del sistema “Build By Badges” rappresenta un passo importante verso l’accessibilità. Ora i giocatori possono scegliere i badge – ovvero, le abilità speciali che preferiscono – e il sistema adatterà automaticamente gli attributi del giocatore per sbloccare quei potenziamenti. Un’inversione di rotta intelligente, se ci si confronta con il passato della serie. Semplifica sicuramenti la vita ai meno esperti, senza sacrificare la profondità per i veterani. A questo si aggiunge la glossary delle animazioni, un vero e proprio database che permette di ricercare ogni singola animazione per nome e vedere i requisiti necessari per sbloccarla. Un aiuto fondamentale per chi vuole replicare lo stile di gioco del proprio idolo NBA (fantastica per gli amanti della pallacanestro americana). Infine i Cap Breakers i meccanismi per superare i limiti di attributo sono stati resi più incisivi. Questi, infatti, donano al sistema di progressione una sensazione di crescita meno meccanica e più gratificante.

NBA 2K26 recensione

La modalità MyCAREER introduce una storyline completamente nuova intitolata “Out of Bounds”. Abbandona parzialmente le atmosfere cittadine open-world degli ultimi anni per concentrarsi su una narrazione più strutturata e coinvolgente (sempre da prendere con le pinze). Si segue il percorso del proprio giocatore soprannominato MP fin dalle sue partite al liceo, con una trama che si sviluppa attraverso filmati ben realizzati, esplorando la vita del protagonista anche fuori dal campo. Un ritorno alle origini per certi versi, un tentativo di creare un’esperienza più personale e memorabile. Sicuramente, una delle più convincenti degli ultimi anni.

Anche MyTEAM – la modalità basata sulla collezione di carte – ha ricevuto importanti aggiornamenti. La novità più eclatante è l’integrazione completa delle stelle della WNBA. Per la prima volta, infatti, sarà possibile creare squadre miste (una scelta che ci ha ricordato quella di FC 25). Far giocare fianco a fianco le leggende NBA e le migliori giocatrici del mondo ampliano a dismisura le possibilità strategiche e la varietà del meta-gioco. Il sistema di progressione e delle ricompense è stato ribilancio, anche se il modello economico resta fortemente legato all’acquisto di pacchetti e all’utilizzo di valuta virtuale.

Infine la modalità MyNBA dedicata alla gestione manageriale si arricchisce con gli “Offseason Scenarios”. Si tratta di sfide a lungo termine create su misura, dove ci toccherà raggiungere determinati obiettivi per soddisfare la dirigenza e i tifosi. Un’aggiunta interessante che dona maggiore profondità e rigiocabilità a una modalità già estremamente completa.

Pro delle novità

  • La tecnologia ProPLAY è matura e regala animazioni e fluidità incredibili;
  • Il nuovo Builder è più accessibile ma non meno profondo;
  • La storyline di MyCAREER è un deciso passo avanti rispetto al passato;
  • L’integrazione della WNBA in MyTEAM aggiunge enorme varietà.

Contro delle novità

  • Le novità non stravolgono l’impianto di gioco generale;
  • MyTEAM resta una modalità dove la “spesa extra” offre un vantaggio competitivo;
  • Le modalità single-player classiche come le stagioni offline hanno ricevuto poche attenzioni;
  • La struttura di fondo rimane molto simile a quella di NBA 2K25.

Gameplay

Il cuore pulsante di ogni NBA 2K è il gameplay. È sul parquet virtuale che si decidono le sorti di ogni partita (e, ovviamente, di edizione). E da questo punto di vista NBA 2K26 non si è fatto trovare impreparato. Il lavoro svolto dagli sviluppatori sul feeling e sul controllo non passa inosservato. Il gioco è più fluido, più reattivo e più realistico rispetto alla passata stagione. Talvolta sembra di assistere a una vera partita in televisione ma con il pieno controllo dell’azione. Il merito è in gran parte del già citato ProPLAY, con ogni giocatore che si presente con delle movenze uniche. Si riconoscono, lontano un chilometro, i tiri in sospensione di Kevin Durant, i giochi di prestigio fulminei di Shai Gilgeous-Alexander e i movimenti in post basso di Nikola Jokic.

Intendiamoci, non è solo una questione estetica. Questa fedeltà si traduce in un gameplay più profondo e strategico, che obbligano il giocatore a conoscere i punti di forza e di debolezza di ogni atleta e sfruttare, dunque, le loro animazioni distintive. Solo così si potrà avere la meglio sull’avversario. Il ritmo di gioco ci apparso leggermente aumentato, con dei match più dinamici e spettacolari (ma senza sacrificare l’anima simulativa del titolo). Ogni possesso è una partita a scacchi, leggere la difesa e chiamare gli schemi giusti per trovare il compagno libero e mandarlo a canestro.

NBA 2K26 recensione

La difesa è stata potenziata. L’intelligenza artificiale è più reattiva, legge bene le intenzioni del giocatore e si adatta di conseguenza. Questo costringe a variare il proprio gioco offensivo, obbligando ad essere più creativi e meno prevedibili. Online la difesa resta una sfida. Affrontare un “altro noi” richiede grande concentrazione e abilità ma le meccaniche a disposizione sono solide e permettono di contenere anche i migliori attaccanti. L’attacco, di contro, offre una libertà d’azione quasi illimitata. Il sistema di palleggio è ricco e complesso e permette di eseguire una quantità enorme di crossover, esitazioni e cambi di direzione. Padroneggiarlo, però. richiede tempo e dedizione ma la soddisfazione di superare un difensore con una serie di finte ben eseguite è impagabile.

Il sistema di tiro è stato oggetto di un importante bilanciamento. In NBA 2K26 la finestra di rilascio verde – quella che garantisce il canestro – è stata ridotta. Un rilascio “leggermente anticipato” o “leggermente ritardato” si tradurrà quasi sempre in un errore. Una scelta che farà – e sta tuttora facendo – discutere, con un conseguente livello di frustrazione da non sottovalutare. Anche il gioco in post basso è stato arricchito con nuove mosse e contromosse, rendendolo un’alternativa valida e divertente al gioco perimetrale.

Nonostante l’eccellenza generale persistono, però, alcuni piccoli difetti. L’intelligenza artificiale offensiva a volte tende a essere prevedibile, con una tendenza ad eseguire ripetutamente le stesse giocate, specialmente nelle situazioni di fine partita. Alcuni passaggi o intercetti sembrano ancora un po’ “guidati”, come se il gioco decidesse a priori l’esito dell’azione. Si tratta di piccole sbavature, imperfezioni che non rovinano un’esperienza di gioco sensibilmente migliorata rispetto alle passate edizioni.

Pro del gameplay

  • Un feeling di gioco realistico e appagante come mai prima d’ora;
  • La fluidità e la varietà delle animazioni sono sbalorditive;
  • La difesa dell’IA è stata migliorata e rappresenta una sfida credibile;
  • Il sistema di tiro premia l’abilità e la conoscenza dei giocatori.

Contro del gameplay

  • Il sistema di tiro potrebbe risultare punitivo per i nuovi giocatori;
  • L’IA offensiva a volte è ripetitiva e prevedibile;
  • Persistono alcune animazioni “guidate” che minano la sensazione di controllo;
  • La complessità dei comandi può spaventare chi si avvicina per la prima volta alla serie.

Dimensione artistica

NBA 2K26 non è solo un grande gioco da giocare. è anche un bellissimo spettacolo da guardare. La presentazione audiovisiva è di altissimo livello e questo conferma la cura maniacale che Visual Concepts ripone in questo aspetto della produzione (come, del resto, ha sempre fatto). I modelli poligonali dei giocatori sono incredibilmente dettagliati. Si possono notare il sudore sulla fronte le espressioni facciali e i tatuaggi riprodotti con una fedeltà impressionante. Le arene sono vive e pulsanti, con il pubblico che reagisce ad ogni canestro, mentre ci si perde a fissare la qualità dei riflessi sul parquet incredibilmente realistica. L’illuminazione dinamica crea un’atmosfera coinvolgente e spettacolare, specie quando si gusta un replay. La regia virtuale con le sue inquadrature dinamiche e i commenti pre-partita contribuisce a creare un’immersione totale, perdendo quel contatto con la realtà videoludica in favore di quella “non”.

La colonna sonora, come da tradizione, è ricca e variegata. Un mix di brani hip-hop e pop che accompagna il giocatore nella navigazione dei menu e durante le partite. Il commento tecnico in lingua inglese è eccellente, i telecronisti sono reattivi e offrono analisi puntuali sull’andamento del match. La localizzazione in italiano, purtroppo, riguarda unicamente i testi dei menu. Una scelta consolidata per la serie, questo lo sappiamo, che potrebbe far storcere il naso a chi non mastica l’inglese. Il sound design è ottimo. Il rumore della palla che rimbalza, lo stridere delle scarpe sul parquet, l’urlo della folla dopo una schiacciata: tutto contribuisce a trasportare il giocatore al centro dell’azione.

NBA 2K26 recensione

Tuttavia non è tutto oro quello che luccica. La struttura dei menu inizia a mostrare i segni del tempo, con un sistema di navigazione confusionario e dispersivo. Trovare una specifica opzione può richiedere diversi passaggi, indi per cui urge un restyling più coraggioso e moderno che gioverebbe alla fruibilità generale del titolo. Anche la Città, la componente open-world legata a MyCAREER, continua a dividere. Da un lato è un hub sociale ricco di attività e cose da fare, dall’altro è un ambiente enorme e a volte dispersivo che obbliga a lunghe e noiose camminate per passare da un’attività all’altra, trasformando l’esperienza in qualcosa che a tratti assomiglia più a un gioco di ruolo online che a un gioco di basket. Questa componente social, spinta con costumi stravaganti e animazioni sopra le righe, si scontra un po’ con il realismo simulativo del gameplay sul campo.

Pro

  • Grafica fotorealistica e modelli dei giocatori eccezionali;
  • Presentazione in stile televisivo curata in ogni dettaglio;
  • Un comparto sonoro coinvolgente e di alta qualità;
  • Animazioni ProPLAY che offrono uno spettacolo visivo senza precedenti.

Contro

  • I menu sono confusi e necessiterebbero di una svecchiata;
  • La Città è dispersiva e può risultare frustrante da navigare;
  • La localizzazione in italiano è limitata ai soli testi;
  • Lo stile social della Città si scontra con il realismo del gioco.