Virginia, la recensione: il noir dalle tinte brillanti di 505 Games

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Virginia trasmette molto, spiegando poco. Avventura grafica pubblicata da 505 Games, divisione editoriale del gruppo Digital Bros, è frutto di un lavoro durato 3 anni e di una scrittura a 6 mani da parte dello studio indipendente Variable Games.

Anche i luoghi più luminosi hanno le loro ombre.

“When writing something a story with an unreliable protagonist whose perception can’t entirely be trusted, there’s a risk of creating imagery which is so abstract it feels arbitrary. We were very mindful of this”: queste le parole di Jonathan Burroughs, co-direttore e co-sceneggiatore del titolo. Se lo scopo, dunque, era di spaesare il giocatore, è sicuramente stato raggiunto pienamente. Virginia mette a disagio sin dall’inizio, accostando dei titoli d’apertura in pieno stile “thriller americano di fine anni ’80” a scorci rilassanti dai colori vividi e tinte corpose. Anche la grafica, semplice e spigolosa, quasi volumetrica, affianca i tratti appena abbozzati dei volti umani ad ambienti costruiti maniacalmente, pieni di particolari e dettagli per offrire il massimo della credibilità. Un peccato, quindi, che il titolo soffra di un framerate piuttosto instabile e costantemente sotto i 20 fotogrammi al secondo su console.

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Ascolto, guardo, non parlo.

Per quanto sia presente la localizzazione in molte lingue, italiano compreso, Virginia è un titolo che si esprime solo con il silenzio. Del tutto priva di dialoghi e con l’esclusivo accompagnamento delle composizioni di Lyndon Holland e dell’Orchestra Filarmonica di Praga, la narrazione coinvolge con forza a livello emotivo, ma relega il giocatore al ruolo quasi esclusivo di spettatore: gli eventi si susseguono senza che vi siano bivi o scelte e molto spesso avverranno dei “salti” in tempi e luoghi differenti rispetto a quelli di un attimo prima, senza alcun preavviso o informazione a schermo per riuscire ad orientarsi.

Ovviamente un intreccio costruito in questa maniera può infastidire o persino annoiare, il che è comprensibile e rientra nei gusti soggettivi. Quel che è certo è che, per la sua “densità” di informazioni più o meno chiare che vengono costantemente riversate sul giocatore, Virginia non possiede un tipo di esposizione adatta a tutti, dato che partendo da un “classico” caso investigativo sulla scomparsa di un ragazzo, il neo agente dell’FBI Anne Tarner si troverà ad affrontare situazioni umane ben più marce, oscure e contorte, anche personali. L’avventura non dura molto, circa 2 ore, per quanto Virginia sia un titolo pensato per essere rigiocato almeno un paio di volte, minimo sindacale per far chiarezza su ciò che si è visto e costruirsi una propria interpretazione degli eventi.

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Limiti e potenziale di una narrazione cinematografica

“Non ho mai preso decisioni: sono sempre state le decisioni a prenderle per me”: la descrizione dell’achievement finale di Virginia riassume perfettamente lo spirito del titolo. La prospettiva in prima persona non fa che peggiorare il senso di impotenza e frustrazione indotto dal vedersi scorrere davanti gli occhi determinati eventi, senza poter fare nulla. Il giocatore non è il protagonista, ma solo un guardone invadente che ogni tanto riuscirà ad allungare le mani verso una bustina di zucchero, un paio di occhiali o una piuma.

Si può poco o nulla in eventi più grandi di noi e sia Anne che chi tiene il controller devono accettare la propria “piccolezza”, le proprie insicurezze e tanti rimorsi per riuscire ad andare avanti… E quando in una trama, già così estraniante, i momenti di comprensione arrivano da allucinazioni, incubi ed esperienze extracorporee, vien da pensare che doversi affidare agli occhi di un alter ego non sempre è un bene.

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Traballamenti tecnici a parte, Virginia lo si ama o lo si odia; ancor più vicino ad un’esperienza cinematografica di quanto si possa credere ad un primo sguardo, è un’avventura grafica che impegna più il cervello che le dita. Dura poco e inizialmente si capisce ancor meno ma, gusti personali permettendo, merita tempo, neuroni e denaro tanto quanto un lungometraggio “impegnato” e molto più dell’ennesimo, snervante cinepanettone per italiani medi.