Dying Light, la recensione: i piaceri della carne

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Il valzer dei ritardi e dei rinvii sembra essersi fermato, Dying Light uscirà per PlayStation 4, Xbox One e per PC in copia fisica il 27 febbraio. Gli utenti PC più impazienti si sono già sporcati fino ai gomiti col nuovo titolo Techland, il figlio illegittimo di Dead Island, pubblicato dalla foriera Warner Bros.

Dying Light è un FPS survival horror con elementi GDR (skill tree, livelli e statistiche varie), il tutto condito con abbondante parkour à la Mirror’s Edge. La trama, pur relativamente complessa per uno zombie game, non si discosta dal canone: Harran, morente città da qualche parte nel Medio Oriente, è stata contagiata da un virus che ha trasformato ottima parte della popolazione in cannibali senza cervello. Il governo ha messo in quarantena la città e progetta di distruggerla per il bene comune. Il nostro avatar, Kyle Crane, è un agente del poco trasparente G.R.E. inviato ad Harran per collezionare dati sensibili sul virus. Alla missione segreta si intrecceranno le vicende delle fazioni di sopravvissuti, che ci costringeranno a scegliere da che parte stare.

Quando il Chrome Engine 6 mostra i muscoli non ce n'è per nessuno.

Quando il Chrome Engine 6 mostra i muscoli non ce n’è per nessuno.

La prima cosa che ci accoglie al nostro arrivo ad Harran, se escludiamo le pistole puntate dei cattivi, è il panorama della città. Il comparto grafico di Dying Light è quello di un titolo nextgen a tutti gli effetti. Luci e materiali sono la punta di diamante di un motore, il Chrome Engine 6, che riesce a cavarsela in ogni situazione. Purtroppo i singoli screenshot mostrano il fianco del motion blur, utilizzato a piene mani, ma che funziona benissimo nel gioco in movimento. A gestire la fisica il Chrome Engine 4, già apprezzato in Dead Island per il realismo dei combattimenti e dei danni fisici, grazie al sottovalutatissimo sistema multi-livello, che permette la scarnificazione progressiva dei nemici. Di default, Dying Light applica un filtro di grana “cinematografica”, che se aiuta il gioco a sostenere zoom e primi piani, opacizza e parecchio le ampie visuali tipiche delle mappe. La trama si dipana attraverso due quartieri di Harran, periferia e centro storico, molto diversi tra loro in termini estetici e di gameplay.

Ora le brutte notizie: i fan di Dead Island saranno quasi contenti di riscontrare una certa ingenuità realizzativa: alcune cose, come gli effetti particellari e dei fluidi (sul serio, non capisco perché Techland si ostini a inserire l’acqua nei suoi giochi), o l’animazione del vento nei vestiti, sono quasi imbarazzanti, soprattutto rispetto all’altissima qualità media. Le animazioni sono il vero punto debole di Dying Light, non tanto quelle degli zombie, solo appena telefonate per ragioni di gameplay, quanto quelle degli umani: finché si combatte tutto ok, ma le espressioni facciali e i gesti “recitati” sono pressoché fermi al precedente del 2011, quando Techland già mostrava di essere indietro sulla questione. Il sonoro del gioco fa il suo dovere. La recitazione italiana è buona, per lo standard videoludico ottima, e i rumori sono corposi e permettono di orientarsi al buio. Metà della soddisfazione nello schiacciare la testa a uno zombie deriva dal suono che fa, non negatelo. A deludere le musiche, sempre opportune e orecchiabili ma poco incisive.

Se vi dicessi che si è infilzato da solo? L’IA degli zombie di Dying Light è anche troppo realistica.

Dying Light

Se la grafica regala gioie (molte) e dolori (pochi), è il gameplay il piatto forte di Dying Light. Survival non vuol dire solo prepararsi da mangiare e avere le armi sempre scariche: la maggior parte degli zombi è lenta e stupida, ma soprattutto ai primi livelli dovrete ragionare ogni combattimento, soprattutto quelli con gli umani. Combattere gli umani è un’esperienza elettrizzante. Se gli zombi sono in grado di gettarsi nel vuoto o sul filo spinato pur di raggiungervi, gli uomini mostrano un’elasticità impressionante: avanzate verso un gruppetto armato di asce con la pistola puntata, non importa che sia scarica, e li vedrete alzare le mani e scappare, oppure, se indietreggerete dopo le prime schermaglie, potrà capitare che vi lascino perdere per tornare ai loro affari. La ponderazione, secondo alcuni, è ciò che ci rende umani, e osservando i banditi di Dying Light si ha l’impressione che scelgano, momento per momento, ciò che conta di più. Niente più duelli all’ultimo sangue per una scatola di chiodi e un coltello spuntato, come troppi “survival” ci hanno insegnato. Sul combattimento con gli zombie non c’è molto da dire, se non che abbonderanno gli zombie “speciali”, ormai quasi ufficialmente codificati da Left For Dead in poi: quello grosso, quello che esplode, quello che sputa… A salvarli dalla prevedibilità la spettacolarità delle prime apparizioni, degna delle migliori regie horror. Ultima nota di merito del combattimento, la possibilità di sbloccare mosse corpo a corpo più o meno utili ma sempre spettacolari e soddisfacenti, complice la prima persona. È stato opportuno rimandare il ciclo giorno-notte a questa sezione.

Giornata tipo ad Harran.

Giornata tipo ad Harran in Dying Light

Di notte il gioco si trasforma. Finché non avrete perfezionato le vostre abilità scordatevi di combattere gli zombie. Le sole armi saranno il parkour e una torcia UV, utile per rallentare (non uccidere) gli zombie notturni, mostri alti due metri più veloci e più forti di voi. Il gioco, almeno nelle missioni principali, non obbliga quasi mai il giocatore a uscire di notte: una scelta coraggiosa che ripaga in termini di personalizzazione dell’esperienza di gioco. Il parkour non è niente di impossibile da padroneggiare (diversamente da Mirror’s Edge), ma all’inizio la sensazione di apprendere è tangibile e molto soddisfacente. Più avanti nel gioco avrete la possibilità di sbloccare il rampino, il mio consiglio è di prenderlo assolutamente, volteggiare tra i tetti come Spider-Man è una parte di gioco che non può mancare. Il tempo che non passeremo a volteggiare, affettare zombi e parlare con gli svitati locali lo passeremo craftando armi e cercando oggetti, veloce e remunerativa la prima, frustrante e gratuita la seconda. Fatte salve le prime missioni, il gioco è affrontabile in coop fino a quattro giocatori. La modalità cooperativa è tipica e non particolarmente eccitante, diversamente la possibilità di impersonare uno zombie speciale e invadere le notti degli altri giocatori. Poteri del mostro e armi dei sopravvissuti sono ben equilibrate per un faccia a faccia, ma quattro giocatori possono facilmente avere ragione del mostro, pur divertente da impersonare.

Fight or flight: questo qui avrebbe fatto meglio a spiccare il volo

Dying Light

Oltre la grafica, il sonoro, il gameplay, c’è il resto: Dying Light è permeato da una sferzante e spensierata ironia, forse per questo i momenti più seri e strappalacrime, peraltro meno originali, non funzionano, mentre alcune quest secondarie sono piacevolmente assurde. Niente spoiler, e niente spoiler su easter egg e citazioni, nascosti più o meno profondamente. Solo un caldo invito a servire questo piatto di carne umana sulle vostre tavole.

Francesco Vecchi
Filosofo dell'arte e gamer, anche contemporaneamente.
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